di DARIO CIOFFI

(del 21 marzo 2016)

È un inciso, però riscrive la storia. Quarantaseiesima pagina delle duecentosessanta in cui sono riportate le motivazioni della sentenza per il crac della Salernitana Sport Spa. I giudici scrivono: «L’aver condotto la società a una situazione di netto sbilanciamento finanziario è responsabilità primaria degli organi sociali, per cui alla fine il veto subìto dalla Salernitana per l’iscrizione al campionato di serie B – stagione 2005/2006, ndr – da parte degli organi preposti (Covisoc, Lega, Figc, Tar e altri), sebbene possa considerarsi per certi versi l’esito di deliberati amministrativi frutto di disparità di trattamento rispetto ad altri casi, costituisce al contempo l’effetto della grave situazione determinatasi e, in ogni caso, non certamente la causa di essa». Eccolo, allora, il passaggio che “restituisce” ad Aniello Aliberti, per la prima volta, un pezzettino della “sua verità”, quella che ha urlato nel deserto per più d’un decennio.

Fuori dall’equivoco: il collegio della seconda sezionale penale del Tribunale di Salerno, com’è noto, il 29 settembre del 2015 ha condannato l’imprenditore di San Giuseppe Vesuviano a 4 anni e 3 mesi. Con l’ex patron granata sono stati ritenuti responsabili del fallimento della società, a vario titolo, anche Franco Del Mese (a lungo amministratore della Salernitana e già “commissario d’emergenza” nell’era Pasquale Casillo), cui è stata inflitta una pena di 3 anni, la stessa toccata a Fabio Collini, e poi Michele Raia (2 anni e 6 mesi), Gaetano Acerito (2 anni e 8 mesi), Omar Massimo Mariniello (2 anni e 4 mesi), Fabrizio Borgo (2 anni e 2 mesi) e Filomena Ada Giordano (2 anni). Assolti, invece, Filippo Maraniello, Luigi De Prisco, Gennaro Aliperta, Michele Carillo, Alfredo Pacifico, Generoso Salvatore e Giuseppe Romanelli.

Tra le righe del verdetto, di cui solo di recente son state depositate le motivazioni, i giudici (presidente Vincenzo Siani, a latere Antonio Cantillo ed Ennio Trivelli) sottolineano dunque – testualmente – la «disparità di trattamento rispetto ad altri casi». In soldoni, un’ammissione di quel che il “past president” del cavalluccio marino ha sempre sostenuto, tesi espressa da una domanda retorica diventata un tarlo nella testa: perché alla Salernitana fu negato lo “spalma-debiti”, concesso invece alla Lazio d’un “esordiente” (nel calcio) Claudio Lotito? Nella sentenza sono citati anche i casi di Chievo Verona e Reggina, alcuni dei club “scampati” alla torrida estate del 2005. «Pagò soltanto la mia società», ha lamentato per oltre dieci anni Aliberti. E in quel passaggio messo nero su bianco, tra una virgola e un’altra, il collegio giudicante di fatto glielo riconosce. Per ora è una “magra consolazione”, in futuro diventerà terreno di battaglia per l’imprenditore sangiuseppese e i suoi legali nel processo d’Appello.

Però, intanto, resta la proposizione principale di quella “frase storica”. E lì si sostiene che l’estromissione della Salernitana dal campionato di serie B, beffarda o ingiusta quanto si vuole, fu effetto e non causa dei conti in (profondo) rosso che avrebbero poi portato al fallimento, decretato il 7 giugno del 2006. Nel merito dei “perché” della sentenza di primo grado, riprendendo in ampi passaggi le contestazioni mosse dal pm Vincenzo Senatore, i giudici sostengono «la durevole centralità del ruolo assunto da Aliberti nel segnare la storia patrimoniale e finanziaria della società poi fallita». Quella dell’industriale di San Giuseppe Vesuviano viene definita «la posizione più grave», perché «l’ampio excursus ne evidenzia un ruolo primario e strategico nella realizzazione di diverse operazioni distrattive ritenute rilevanti».

Importante anche il passaggio sullo “spessore” – sostanziale e nell’immaginario collettivo – del patron: «Con Aliberti, nel bene e nel male, la società si è identificata (anche, se si vuole, nella percezione della tifoseria). E proprio questa impostazione padronale e personalistica della gestione della persona giuridica ha costituito il limite oggettivo dell’agire imprenditoriale dell’imputato, al quale il consiglio di amministrazione e gli organi di controllo (ora per ragioni di mera colpa, ora con profili di dolosa partecipazione mediante omissione) non hanno saputo e voluto opporre la necessaria laicità delle regole di governo delle società commerciali, così concorrendo e agevolando la commissione degli illeciti, il cui “primum movens” è però indiscutibilmente nel presidente Aniello Aliberti».

All’ex patron, ritenuto colpevole di otto capi d’imputazione, sono state riconosciute le attenuanti generiche: «Il Collegio – scrivono i giudici – deve considerare il comportamento processuale dell’imputato, contrassegnato, con particolare riferimento alla fase di giudizio, da apprezzabile correttezza, dalla costante e vigile partecipazione dibattimentale, dalla scelta di sottoporsi all’esame, ispirata certamente dalla prospettiva difensiva, ma rivelatasi obiettivamente proficua, per gli argomenti di riflessione offerti, per la ricostruzione delle vicende, pur declinate dall’imputato secondo una chiave di lettura che il Tribunale non condivide ma che nell’articolazione diacronica dei fatti neppure può essere valutata come aberrante e quindi funzionale rispetto alla funzione euristica del dibattimento».

È un’altra frase da (ri)leggere con attenzione, questa sulle “verità” di Aliberti: non condivise dai giudici, però utili, “da ascoltare”. Stavolta non si riscrive la storia, però magari ci si riflette un po’ su…

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