di DARIO CIOFFI

(del 16 dicembre 2015)

Regola numero uno: senso d’appartenenza. Dario Socci ha 27 anni, e a 18 aveva già lasciato Salerno. Ha girato il mondo per affermarsi nel pugilato, però porta ovunque con sé i legami con la sua storia. Sabato scorso, in Germania, ha vinto il titolo intercontinentale mettendo ko l’avversario all’ottavo round, festeggiando sul ring con una bandiera granata. “È il vessillo dei Fedelissimi, gli amici che mi seguono e sostengono sempre”, racconta da Berlino, quasi sorpreso dal fatto che quella foto pubblicata sui social network abbia fatto il giro del web. “Non è protagonismo, anzi. È semplicemente attaccamento alla mia terra. Prima d’ogni incontro mi carico ascoltando canzoni di gruppi pop e rock rigorosamente salernitani. Perché in tutto quel che faccio c’è qualcosa della mia città”, parola d’un campione della “nobile arte” ch’è rimasto tremendamente annodato alle sue radici.

Sbocciò in un angolo della zona orientale, palestra Metropolis, al centro sociale. Fu il trampolino di lancio verso una carriera da sogno, che pure non gli ha mai fatto perdere il contatto con la realtà. Prima Roma, nello storico club dell’Audace, quindi New York, nell’arena in cui ancora riecheggia il mito di Muhammad Ali, poi il bronx degli States, prima d’un contratto da professionista a Berlino dove da un anno e mezzo rincorre nuovi, prestigiosi traguardi. La sfida di Socci è un rilancio continuo, con il profilo basso di chi fa dell’umiltà e del sudore il segreto d’ogni successo, oltre l’insopportabile retorica che spesso si sparge nel raccontare la vita degli sportivi. Dario no, è uno cui piace poco il cerimoniale. È un autentico, un ambizioso che pratica lo sport dei duri con una tremenda nostalgia di mamma’. Il primo motivo per il quale gli manca Salerno: “Mia madre è la mia prima tifosa, anche se non ha mai visto un mio match – sorride -. È sempre in ansia, preferisce al massimo guardare le repliche”. Tornerebbe per lei, certo, ma pure per coronare un progetto che non vuol togliersi dalla testa: “Ci penso da anni, vorrei fare qualcosa sul territorio, insieme alla mia gente. Aprire un punto di riferimento per tanti giovani, non per creare campioni, che se vengono fuori tanto meglio, altrimenti chissenefrega, ma per togliere dei ragazzi dalla strada, com’è successo a me, che mi son avvicinato alla boxe andando al centro sociale perché non avevo soldi per fare altro”.

È un obiettivo, l’ennesimo, che Socci si pone mentre prepara il prossimo impegno, il 9 gennaio in Germania, senza perder di vista un pallone che pure nella sua vita rotola in modo strano. “Io non sono un appassionato di calcio – svela quasi sorprendendo -. Sono semplicemente un cuore granata. Perché la Salernitana è un simbolo della mia città, una parte irrinunciabile della mia vita. E guai a chi me la tocca”. Chiedere per credere a Nicola Citro da Fisciano, attaccante del Trapani che con un suo gol qualche settimana fa ha sbancato l’Arechi: “Andavamo a scuola insieme, io e Nik. Siamo grandi tifosi l’uno dell’altro, oltre che amici. Dopo la partita l’ho chiamato arrabbiatissimo, ma come, con tante squadre, proprio contro di noi vai a segnare?” Lui ha sorriso, rispondendomi che avevo proprio ragione”. Regola numero uno: senso d’appartenenza…

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