di DARIO CIOFFI

Il profumo ne precede la fama e la “fame”. Prima senti l’odore. Solo dopo, ma parecchio dopo, ne assaggi il sapore. «Perché ‘a mevza, per essere buona, adda sta’!», ripeteva nonna Renata ogni anno di questi tempi. L’ha cucinata per una vita, ogni benedetto San Matteo, ché il panino con la milza, pardon «pan’ e mevza mbuttunat’», è simbolo di salernitanità non meno d’una maglia granata nel calcio o d’uno scorcio del golfo e del Castello d’Arechi.

E così, ogni 21 settembre che s’avvicinava, dalla cucina di via Manzo, come da mille altre nel cuore o nella periferia della città dove – a voler essere profani – il “vangelo di Matteo” s’arricchisce d’uno speciale inserto di tradizione culinaria, si sprigionava un profumo che impregnava le mura e arrivava fino alle strade. Perché la festa del Santo Patrono, a Salerno, ha i suoi riti. E le sue ricette.

Quella della «mevza mbuttunat’» nonna Renata la recitava come uno scolaretto modello fa con le tabelline che ha imparato a memoria. «Milza, aglio, sale e olio. Prezzemolo, foglie di menta e aceto rosso». Facile, no? Però mica era finita. «Questi sono gli ingredienti. Ma per essere buona, adda sta’». Vuol dire che “deve riposare”, ed è in quel momento che le cucine di mezza Salerno diventano come l’anello inferiore della Curva Sud dopo una “torciata”, profumando d’identità popolare anziché di fumogeni.

Fuori dall’equivoco: per molti mangiare «pan’ e mevza mbuttunat’» è una sorta d’omaggio al Santo, un dovere morale cui non sottrarsi, un inno all’appartenenza recitato a morsi. Non è una pizza gourmet né una frittura di calamari, non è una pasta al ragù né una bistecca alla fiorentina, però è un momento irrinunciabile pure se a volte fa dire «oh, che bello», piuttosto che «oh, che buona».

In fondo, nella notte dei tempi, la tradizione della milza nasce perché le interiora degli animali erano gli “scarti” regalati al “popolino”, ai ceti meno abbienti, che si nutrivano di quel che trovavano o che passava il padrone. Pure per questo, allora, la «mevza» salernitana di San Matteo è un’icona del riscatto degli ultimi che d’un loro “piatto di sopravvivenza” hanno fatto una tipicità cittadina, magari non la più apprezzata, però di sicuro la più acclamata e famosa.

Un concentrato di profumi e d’identità che racconta una storia. E che dà emozioni, nell’associarla ciascuno alle proprie immagini del cuore. Come quella di nonna Renata, che l’ha preparata fino all’ultimo, pure quando la vita l’aveva stancata e ridotta su una sedia a rotelle. Da lì governava ancora la sua cucina mentre le mani le “tremavano” da sole ormai in balia del Parkinson, schiacciando la sigaretta che stringeva tra le dita, fumata di nascosto. Soffriva, ma teneva sempre i fornelli sott’occhio. Con pazienza. Aspettando che la “magia” si compiesse del tutto. «Perché ‘a mevza, per essere buona, adda sta’!»…

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