di DARIO CIOFFI

«Salutiamo il nostro amatissimo Vescovo». «Un applauso per i nostri straordinari portatori». Don Michele Pecoraro è come uno speaker radiofonico che non dà mai la linea alla pubblicità. Va “a braccio” per tre ore nel raccontare in diretta la processione di San Matteo alle migliaia di persone che si son radunate per le strade di Salerno e che dagli altoparlanti ascoltano la sua voce lungo tutto il tragitto. Un “fenomeno” comunicativo.

Il meglio di sé, il parroco della Cattedrale, l’offre al momento del rientro in Duomo. È la fase più delicata, in cui la solennità religiosa e la spettacolarizzazione del rito popolare devono convivere, coesistere. E per riuscirci servono le parole giuste. Lui le trova, pure se quasi certamente non le ha preparate. Loda l’arcivescovo Luigi Moretti che gli sta accanto, invita a pregare per la sua salute («che mi ha impedito di partecipare all’intera processione», dice il pastore della Curia) e prepara la gente al delicato ma dolcissimo compromesso tra Fede e folklore.

«Dopo un discorso di don Michele io dovrei solo dare la benedizione e andar via», sorride il monsignore. Ch’è felice, «perché questa è stata la festa della comunità». Il Vescovo “chiama” la preghiera del Padre Nostro, in via Duomo non c’è spazio per uno spillo ma la folla è composta e rispettosa del momento. Tensioni e fischi degli anni scorsi sono un passato remoto già cancellato.

Le paranze si dispongono in fila. Don Michele le introduce, dopo aver consegnato due premi ai portatori (uno per sessant’anni di militanza, un altro alla memoria al figlio d’un paranziere da poco scomparso che salvò in mare sei seminaristi), spiegando chi erano i Santi Martiri Salernitani. E poi San Gregorio VII, «un grande Papa, diventato nostro concittadino d’adozione tanto che ancora ne custodiamo le spoglie».

I migliori professori son sempre stati quelli capaci di render la storia come una “favoletta”, da cui non distogliere mai l’attenzione mentre si ascolta. Sì, sono i più bravi perché hanno sempre una risposta pronta e credibile, pure quando – e sarà capitato a chiunque – magari una domanda dai banchi li spiazza, ma per “tener botta” sanno attingere un po’ alla fantasia. Accade così, probabilmente, nel momento in cui il parroco della Cattedrale spiega il “perché” della corsa sulle scale del Duomo per «riportare a casa le statue dei Santi». Racconta che i gruppi di portatori si chiamano paranze, dunque prendono il nome dalle barche che quando arrivano nei pressi della riva vengono spinte a mano. E disegna metafore d’uomini che «navigano nel mare dell’esistenza, con la forza dell’amore che dà sollievo alla fatica».

Chissà se la “inventa” al momento o ci aveva già pensato. Ma in fondo, chissenefrega. È bella ed è credibile, per giustificare lo spettacolo finale. Su il capoparanza, allora. «Simm’ pront’? Vai-va’…», il segnale per chiamare il rullo di tamburo, e via con lo sprint fin in cima alle scale. Cominciando con San Gaio e chiudendo con San Giuseppe e San Matteo. Applausi, ovazioni ma senza eccessi né uscite fuori luogo, occhi fissi sulle statue mentre girano. Sì, girano. E allora? Sereni, non c’è nessun “cattivo pensiero” a cui rendere omaggio con famigerati inchini, è che la processione è fatta per la gente, e il Santo devono vederlo tutti, chi sta in prima fila e chi è “schiacciato” nell’angolo d’un vicolo.

Si fa tardi, però che importa. Era la festa del popolo, e tale è stata. Chi se l’è persa, per impedimenti o per scelta, può sempre farsela raccontare…

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