di FRANCESCO CACCIATORE*

Cataluña is not Spain, recitava la scritta su un muro di Barcellona, nei pressi della Sagrada Familia, che vidi quando visitai la città nell’ormai lontano 2005. In dodici anni, le cose non sembrano cambiate, anzi: domenica prossima si dovrebbe svolgere nella regione un referendum per l’indipendenza. Dico “dovrebbe” perché la votazione, assolutamente illegale in quanto non prevista dalla costituzione spagnola, verrà bloccata in ogni caso dal governo di Madrid, che dispiegherà trentamila agenti delle forze dell’ordine per bloccare i seggi. Uno scenario da fantascienza distopica, con la possibilità concreta che gli agenti debbano usare la forza contro – si suppone – orde di indipendentisti scesi in strada, senza contare gli arresti di funzionari pubblici, alcuni già effettuati. Tornano i fantasmi della guerra civile, mai sopiti in Spagna.

L’operato del governo di Madrid è scellerato, ma nei modi, non nel principio. L’uso della forza, per quanto legittima, come strumento di repressione, infatti, non fa che alimentare il canto delle sirene populiste che hanno alimentato la crisi catalana, e ora si nutrono di essa. Quello che sembra sfuggire agli indipendentisti e ai loro sostenitori – gli stessi neo-idealisti  di sinistra che sostengono la dittatura di Maduro in Venezuela, orfani alla costante ricerca di qualcosa che colmi il loro vuoto ideologico – è che la pretesa di indipendenza catalana si poggia su basi a dir poco traballanti dal punto di vista storico e ideale.

La Catalogna, infatti, è la Spagna: prima del 1479, anno del famoso matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona (il regno che comprendeva anche la Catalogna, a partire dal 1137), l’idea di una nazione spagnola non esisteva. Fu con l’unione dinastica, e con la di poco successiva conclusione della reconquista con la cacciata definitiva dei musulmani dalla penisola iberica, che poté nascere la corona spagnola, protagonista delle vicende politiche europee e mondiali per oltre tre secoli, intraprendendo anche il lungo e tormentato percorso di evoluzione nel moderno modello di stato-nazione. Fu anche la Catalogna, quindi, a fondare la Spagna.

È vero che in principio la Spagna era una confederazione di regni, e l’Aragona mantenne il proprio parlamento e un proprio ordinamento giuridico. Ed è anche vero che, all’indomani della guerra di successione spagnola (1701-1715), l’Aragona (e quindi la Catalogna) persero progressivamente tutte le autonomie rispetto al governo centrale dei re Borbone. Anche questo, però, fa parte di un processo storico comune a tutti gli stati europei: l’accentramento del potere da parte dell’autorità centrale e la progressiva perdita delle autonomie locali. Un passaggio necessario nella fondazione del moderno stato-nazione.

Tutte queste autonomie, però, sono state recuperate negli ultimi decenni, a partire dalla ricostruzione dello Stato spagnolo dopo la dittatura franchista. La Catalogna ha un proprio parlamento, delle proprie leggi, e un’autonomia linguistica senza pari al mondo: il catalano è lingua ufficiale e si insegna nelle scuole. Per cosa, allora, si battono gli indipendentisti? Una risposta immediata viene dall’unica autonomia che la Catalogna non ha rispetto al governo di Madrid: quella fiscale. Considerazioni di tipo economico, dunque, e comprensibili nella regione più ricca di un Paese che ha attraversato una forte recessione.

Eppure di economia si sente parlare molto poco, almeno fuori dalla Spagna. Tanto vociare si fa di autodeterminazione dei popoli, glorificazione delle autonomie e rivendicazione di un’identità differente. Il tutto dimenticando che la legge per il referendum e quella per la “disconnessione” dalla Spagna sono state approvate dal Parlament catalano in due sessioni assolutamente irregolari, con l’opposizione rimasta fuori dall’aula per protesta. Il referendum di domenica, dunque, non viola soltanto la Costituzione spagnola, ma anche lo Statuto catalano. Lo scrittore catalano Javier Cercas lo ha definito, in una recente intervista al Corriere, “un attacco alla democrazia in nome della democrazia”.

Un attacco che si inserisce perfettamente nella corrente tempestosa del populismo: dare la colpa all’ “altro” (in questo caso il governo di Madrid) dei problemi e dei malesseri sociali, e promettere che, una volta eliminato “lui”, tutto andrà meglio. Senza alcuna preoccupazione per i problemi che il vuoto dell’ ”altro” lascerebbe; il welfare spagnolo, ad esempio, è tutto gestito dal governo centrale. Il tutto condito, come sempre, da una versione opinabile della storia. Uno schema condiviso per filo e per segno dai neoborbonici nostrani, non senza ironia, dato che fu un re borbonico a privare l’Aragona dell’autonomia. Nello stesso schema si inserisce l’avversione diffusa in tanti strati sociali e in molti partiti politici per la struttura Europea, accusata di tutti i mali possibili; avversione all’origine dei rigurgiti nazionalisti odierni.

Il prossimo passo nell’evoluzione delle strutture politiche della società occidentale, dunque, non può certo essere un ritorno a particolarismi e autonomie locali di stampo medievale. La Catalogna divenne rilevante solo unendosi alla corona di Aragona prima, e a quella di Castiglia poi. Guardare al passato per farci guidare al futuro, questo è il rimedio contro i populismi. Bisognerebbe spiegarlo agli indipendentisti e ai loro supporters in tutto il mondo.

*storico, ricercatore, giornalista e scrittore freelance

“Occhio di riguardo” è una rubrica settimanale di approfondimento su temi di attualità e di cultura, con uno sguardo alla politica, alla società e all’economia.

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