di DARIO CIOFFI

Il vero “dramma” è aver perso la ritualità d’inizio estate. «Stasera, la partita, a casa di chi la vediamo?». La Nazionale di calcio è bella per questo, perché quando gioca ferma il Paese ed è ancora una delle poche cose che riesca a unirlo. E allora va da sé che ci mancherà tanto, il Mondiale, senza le adunate con amici e sconosciuti, senza le offerte del tipo «compra un televisore e se gli azzurri vincono diventa un regalo», senza sentir neppure una volta Mameli che riecheggia nelle nostre strade sollecitando un orgoglio italiano che altrimenti, per la (stra)grande maggioranza, non sentiamo né ci appartiene, spesso perché non ci sono particolari motivi capaci di sollecitarlo.

Detto ciò, c’è nulla da piangere dopo l’eliminazione con la Svezia. In 180 minuti l’Italia non ha segnato neppure un gol alla Nazionale d’un Paese di cui, Ibra a parte, nel calcio conoscevamo solo le tifose stangone e biondissime inquadrate durante le gare di Mondiali ed Europei, quando la squadra svedese si qualificava, ovviamente, e non è che sia accaduto sempre, anzi. Certo, le lacrime vere di calciatori ultra-pagati restituiscono un senso d’umanità ai “beniamini” con stipendi da nababbi ora diventati artefici d’una disfatta, ed è innegabile aver provato un po’ d’emozione nel vedere e sentire singhiozzare Buffon. Il punto, però, vuol essere un altro.

C’è nulla da piangere perché ognuno è figlio del suo tempo e questa Nazionale è specchio del momento della Nazione che rappresenta. Un Paese per vecchi, che arranca, in cui non c’è forza né voglia di cambiare. Da ore starete leggendo della necessità di «rilanciare i settori giovanili». Si dice sempre, dopo ogni sconfitta, un po’ come quando un sindaco neo eletto promette d’essere «il primo cittadino di tutti, anche di chi non mi ha votato». Luoghi comuni, fiumi di retorica che scorrono assai più veloce delle lacrime per la Caporetto del nostro pallone.

Settori giovanili, ma sì. Parliamone. Quelli di cui tutti “denunciano” una cattiva e spesso improvvisata gestione ma soltanto parlando sottovoce, perché poi alcuni genitori son disposti persino a «portare ‘o sponsor» (è scritto in dialetto campano, ché qui c’è la “cattiva fama”, ma non crediate che in varie piazze del Nord sia diverso) pur di far giocare il figlioletto, le società spesso gradiscono così anche il vivaio fa monetizzare e se tutto poi diventerà una «grande illusione», pazienza. Epilogo assai probabile, in un sistema che in certi casi fa acqua fin dalle scuole calcio (ce ne sono una marea) è affidato a istruttori e formatori improvvisati, perché la quantità (delle iscrizioni) vale più della qualità (del lavoro da fare). Detta così pare la solita panoramica superficiale, però è pure la foto reale del nostro movimento.

Il discorso è lungo, e non basterebbe arrivare alla cerimonia d’inaugurazione di Russia 2018 per affrontarlo seriamente. Perché questo è un Paese che “taglia” le risorse per lo sport, sottovalutandone il valore sociale, che rifiuta le Olimpiadi chiudendo ai circoli virtuosi, e in cui inevitabilmente comandano i pochi ricchi padroni del vapore al timone dei club calcistici più importanti. Sì, quelli che non riescono neanche a scegliersi un presidente, visto che le Leghe di A e B sono entrambe commissariate, e che quando la Nazionale gli porta via un calciatore sbuffano sperando che non giochi («perché lo paghiamo noi… E se si fa male?»).

Continuiamo a rincorrere l’utopia di settori giovanili gestiti “ad arte”, che magari in un futuro ancora indefinito pescheranno un po’ meno all’estero e valorizzeranno un po’ di più i ragazzi del posto, esaltando i talenti, riuscendo a offrirgli un addestramento di qualità, in centri sportivi all’altezza, con la possibilità di farli studiare e crescere aprendogli anche la strada d’una chance alternativa. Continuiamo a sperare che qualche Under di valore non arriverà in un “top club” solo per fare lo sparring partner ai titolari stranieri con i fratini incollati addosso in allenamento, e che a questa crescita farà seguito lo sviluppo di stadi più moderni e meno fatiscenti. Sogni vecchi, irrealizzati e ormai quasi consumati.

Intanto, via con la caccia al colpevole. Ventura, “maestro di calcio” dall’abilità riconosciuta nell’ambiente per i suoi trascorsi in provincia, s’è dimostrato confuso nei panni di commissario tecnico, anche perché in quel ruolo sei poco allenatore e molto selezionatore. Non è stato all’altezza e dunque si sfilerà, mentre ai piani più alti si chiederà pure il passo indietro del presidente federale Tavecchio e della governance attuale. Senza la certezza, ovviamente, che a un possibile ribaltone faccia seguito una vera rivoluzione culturale e di metodo.

Siamo il Paese del Gattopardo, e ci basterà cambiare ct per credere che si sia voltata pagina. La verità è che lo sport contempla vittorie e sconfitte, però c’è modo e modo per raggiungerle e vederle consumarsi. Più che al traguardo (ch’eravamo proprio convinti di tagliare lo stesso, come se ci spettasse per diritto acquisito, e invece…) adesso tocca guardare al percorso. Sentendoci tutti in parte responsabili della disfatta del nostro gioco nazional-popolare. Chi rompe paga. Prendiamoci, ciascuno, un po’ di cocci…

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