di DARIO CIOFFI
Roberto Bani era un ultrà del Brescia. Un lavoratore, che nella vita faceva il fabbro. Un ragazzo di 28 anni. Si spense in un’età in cui dovrebbe esser vietato morire, mentre tifava per la sua squadra. In una trasferta all’Arechi. I suoi ultimi gradoni, prima del Paradiso. Era la primavera del 1997. Roby macinò quasi 800 chilometri per esser al fianco della Leonessa, e incitarla nella partita contro la Salernitana. Fu il tragico capolinea d’un’esistenza troppo breve.
L’incidente sugli spalti, il trasporto in ospedale, il coma, l’angoscia, la speranza, le preghiere e infine le lacrime. Che neppure il tempo, vent’anni dopo, stavolta ha asciugato. Non sul volto di Federico Bani, suo fratello maggiore. «È tutta colpa mia. Gli ho trasmesso, fin da quand’era piccolo, la passione per il calcio e l’amore per la maglia», racconta singhiozzando e viaggiando con la mente nei ricordi d’un’infanzia vissuta insieme, con la testa nel pallone, respirando l’odore acre dei fumogeni e saltellando su quei gradoni ch’erano la loro seconda casa.
«Sono cresciuto con gli ultras del Brescia da quando avevo 16 anni, oggi ne ho 54. Roberto, ch’era più piccolo, mi ha seguito. Era una persona speciale, un amico di tutti. E se qualcuno pensa che siano le “solite frasi fatte”, invito a riflettere sul perché, vent’anni dopo la sua morte, il ricordo sia ancora così forte», spiega Federico che quel giorno, nello stadio con il nome da principe, non c’era. «Avevo un impegno familiare, era un periodo in cui cominciavo a viaggiare un po’ meno. Mio fratello no, lui andava ovunque. Lo raggiunsi a Salerno solo dopo aver saputo ch’era stato ricoverato in ospedale. E versava in condizioni gravissime».
Roby Bani lottò – invano – contro la morte per qualche giorno, in un letto del Ruggi, dove il popolo granata si mobilitò nella speranza che il destino non mostrasse il suo volto più crudele. «I salernitani furono grandi. Straordinari. Di quei momenti drammatici ho ricordi sbiaditi, confusi, non riuscirei oggi a focalizzare i volti delle persone che ci ritrovammo al nostro fianco. Ma di sicuro c’era tanta gente, con un cuore immenso», è la memoria ancora viva di Federico, con i tormenti nella testa e però pure con un sorriso nell’anima. «Tra le due tifoserie c’era già rispetto – fin dall’alba degli anni Novanta, ndr -. Il gemellaggio ch’è nato in nome di mio fratello, a seguito della solidarietà che la mia famiglia e gli ultras bresciani ricevettero in occasione di quella tragedia, è un motivo d’orgoglio».
Sì, perché gli ultimi giorni di Roberto furono i primi d’un’amicizia poi diventata fratellanza, un rapporto autentico e più forte del fuoco. Arde da un ventennio, e s’alimenterà ancora, in un altro Brescia-Salernitana ch’è prima di tutto l’incrocio e l’abbraccio di due torcide che s’ammirano («Guardo sempre con piacere i video della Curva Sud Siberiano – ancora Federico -. Un grande spettacolo»). Sempre nel segno e nel ricordo di Roby. «Custodisco ancora la sua sciarpa, avrà quarant’anni adesso. Gliela regalai io, e mio fratello l’aveva con sé, stretta al collo, pure quel giorno all’Arechi». La sua ultima trasferta. I gradoni prima del Paradiso.