di DARIO CIOFFI
Amato, “odiato”, mai indifferente. Ogni qualvolta Nello Aliberti compare in tv o su carta stampata a Salerno ne vien fuori un dibattito. Una contrapposizione. Netta, forte, inevitabile. È l’eterna dicotomia tra la “nostalgia canaglia” e l’«ancora parla?». Perché l’imprenditore di San Giuseppe Vesuviano nei suoi 11 anni granata è stato il presidente della serie A, sfiorata per due volte, poi conquistata, infine persa ma accarezzata di nuovo anche prima del fallimento. Già, Aliberti è stato anche il patron del crac, d’un processo penale che l’ha visto condannato a tre anni e mezzo in primo grado (ora c’è l’Appello), di contestazioni sempre vibranti durante la sua gestione.
Di sicuro, in queste due tesi agli antipodi, ciascuno sostiene ragioni inattaccabili. La Salernitana di Aliberti mise in mostra campioni di livello “stellare”, regalò emozioni irripetibili, portò le maglie granata sui palcoscenici più sontuosi dell’Italia del calcio, costruì un vivaio da gotha nazionale, sfornò talenti, si fermò solo non completando il progetto d’un centro sportivo. Poi però fallì. Prima esclusa dalla serie B e poi sbattuta in Tribunale per un iter giudiziario lunghissimo, complesso, che ancora avrà molto da dire prima d’arrivare a sentenza definitiva. Di sicuro c’è che nelle motivazioni della condanna inflitta dai giudici salernitani ad Aliberti in primo grado c’è un’ammissione d’iniquità, sempre sostenuta dall’ex patron, sulla mancata iscrizione del club nell’estate del 2005 (leggi qui). Materia da approfondire, e a chi lo vorrà non mancheranno elementi.
In mezzo a questa contrapposizione, c’è “l’impatto” mediatico che l’imprenditore sangiuseppese riesce ancora ad avere sul popolo del cavalluccio marino. Sì, perché Aliberti vien visto e ricordato da tutti (chi lo rimpiange e chi gli diede del «Pinocchio») come il presidente delle lacrime dinanzi al tunnel degli spogliatoi, dopo il gol di Vannucchi in Salernitana-Vicenza (penultima giornata di serie A, maggio 1999), il patron che chiedeva aiuto alla piazza quando si rischiava di retrocedere parlando alla gente a cuore aperto, “stracciando” i prezzi e mettendo i biglietti a un euro per le donne pur di riempire l’Arechi. Due esempi, che marcano la differenza con l’attuale gestione Lotito, al quale l’ex patron non risparmia stoccate perché non l’ha mai amato (in Tribunale raccontò d’averci parlato nel 2005, per consigli sullo “spalma-debiti” che venne concesso alla Lazio).
L’altra sera, ospite di Eugenio Marotta a Zona Mista News, Aliberti ha suscitato l’effetto di sempre. Rabbia d’alcuni e rimpianti di altri. Eppure, di quell’era ormai passata da più d’un decennio, resta qualcosa che mette ancora tutti d’accordo: il coinvolgimento, l’anima, la presenza nei momenti topici. Aspetti oggi percepiti in modo molto diverso.
Una gestione chiusa da un fallimento, giusto o meno che sia, contempla sicuramente tanti errori (sportivi, aziendali e forse di rilevanza penale, stando a quanto detto dalla Giustizia fin qui). Di quella Salernitana, allora, più che la nostalgia, servirebbero le “intuizioni”: nell’attenzione e nella conduzione del settore giovanile, nella capacità di far avvicinare e non allontanare il pubblico, a dirne due soltanto.
Nel processo ad Aliberti, una delle contestazioni formulate dalla Procura all’ex patron – tutto è agli atti – consisteva in uno “stipendio” percepito dall’imprenditore che ha sempre sostenuto di non aver «mai preso un euro dalla mia società». Quando in aula gliene fu chiesto conto, lui rispose: «Quei soldi servivano per i “premi partita”. A volte, prima delle gare importanti, devi “caricare” così i calciatori». Il presidente del collegio incalzò: «Quindi erano soldi in nero?». E Aliberti sorrise: «Signor giudice, il calcio è strano. Anzi, è un sogno. E per i sogni si fa di tutto».