di DARIO CIOFFI

D’improvviso, dopo un vile agguato a un arbitro nel campionato di Promozione laziale, ci si accorge che sui campi di calcio di mezz’Italia, o forse dell’Italia intera, ragazzi pagati con rimborso benzina (e quel che avanza basta sì e no per una pizza la sera dopo) vengono offesi, aggrediti verbalmente, a volte pure fisicamente. Oggi Giorgetti, Salvini e Nicchi s’incontrano – e male non fanno – al Viminale per dire «basta». Parleranno un’oretta, faranno un paio di selfie, tre post e qualche intervista. In un Paese che vive d’annunci, meglio del silenzio. Però la “battaglia” è un po’ più vasta e complessa. E non bastano Aia e Governo per vincerla.

Cominciamo dal basso. Dagli allenatori che dovrebbero obbligare i loro calciatori, già dal primo giorno in cui mettono piede in campo, prima al rispetto degli altri e poi a correre e calciare. Dai genitori che troppo spesso diventano i peggiori “tifosi” dei loro figli. Dalla società che devono cacciare via – stavolta sì, a calci – chi non rispetta queste regole. Però davvero. Non a chiacchiere. Perché se poi gli arbitri si fermano anche questo bel gioco finisce.

Nel “giro delle scuole calcio” (e società dilettantistiche) tutti proclamano «fair play, lo sport prima di tutto e i risultati in secondo piano». Per molti è davvero vangelo. In alcuni casi, però, evidentemente è retorica. Altrimenti non si spiega perché una settimana sì e l’altra pure ci siano partite che non finiscano e il giovedì il Giudice Sportivo, visti i referti, emetta provvedimenti che lasciano sgomenti (a leggerli, meglio sorridere per non deprimersi). Proviamoci, a cambiare veramente, senza bisogno d’aspettare i selfie dal Viminale.

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