di DARIO CIOFFI
Sarebbe stato facile abbandonarla nel silenzio. Cavalcare l’onda popolare della diserzione. Lasciarla correre nel deserto con la comoda scusa d’un “se lo sono meritato”. Più difficile è stato esserci, metterci la voce dopo averci già messo la faccia, alla vigilia della partita, lontano da occhi indiscreti. Salernitana-Foggia 1-0 è anche, e forse soprattutto, la vittoria d’una tifoseria che ha scelto la linea dettandola sotto traccia, sotto voce, tutto il contrario di com’è abituata a fare. Perché la Curva Sud Siberiano, stavolta, non ha parlato a colpi di comunicati né di striscioni, ha preferito far quadrato attorno a sé, con la certezza che gli ultras, tutti, quelli che seguono e rappresentano la maglia granata in ogni tempo e luogo, sarebbero stati compatti e che la gente ne avrebbe seguito la scelta.
Fuori dall’equivoco: ogni tifoso ha vissuto con ansia e perplessità la narrazione d’una settimana surreale, tra le dimissioni di Colantuono, il ritiro con “supplente”, il toto-allenatore, il caso mediatico Delio Rossi, il ballottaggio Calori-Gregucci, infine il ritorno di quest’ultimo. Poi, a ribaltone consumatosi, i rappresentanti della Sud sono piombati a San Gregorio Magno, poche ore prima che la squadra rientrasse a Salerno. Avrebbero potuta attenderla al Mediterranea, e invece hanno preferito raggiungerla lì, a 68 chilometri da casa, per portare il proprio messaggio di sprone, di carica, d’appello alla responsabilità per una maglia ch’è a all’alba dei cent’anni di storia.
Amanti nelle cose complesse, ostinatamente lungo la propria strada, pure se in direzione contraria o impopolare, gli ultras hanno deciso di esserci e di tifare per 90’, accettando – come recitava uno striscione d’un ventennio fa – “un solo fischio, quello d’inizio”. Perché dopo tre sconfitte umilianti si riparte a caccia di riscatto, non con l’aria sommessa né disinteressata della resa. Perché dove finiscono demeriti e colpe di società, calciatori e allenatori comincia la missione “morale” dei tifosi di non sfilarsi dalle macerie, anzi di restar in piedi e lì in mezzo di provare a rialzare la Salernitana. Perché all’Arechi c’era il Foggia che portava con sé oltre 1200 supporters, un esodo che con l’unione delle due Curve avrebbe trasformato lo stadio con il nome da principe in una succursale dello Zaccheria. Cosa che da queste parti non aveva né avrebbe dovuto aver precedenti.
È stata un’opera complicata, in un clima più pesante del solito. La tensione in campo e sugli spalti, lo scetticismo, la squadra granata monocorde, la partita piatta, l’andamento lento, gli attacchi scontati come quei messaggini “d’auguri a te e famiglia” che svolazzano a Natale, e però la gente a gridare e a crederci “sino dalla fine”. Poi è arrivato il 92’. Il gol di Vitale. A trasformar in boato quel canto incessante che dalla Curva Sud Siberiano non s’è mai spento. Neppure per un istante. Una liberazione. Però al triplice fischio nessuna festa finale con i calciatori. Solo un applauso, forte e convinto, reciproco, mentre Gregucci faceva l’inchino e diceva “chapeau”. Niente “Despacito”. Non adesso. Non ancora. Sarebbe stato troppo facile.
Buon Natale.