di DARIO CIOFFI

Buon compleanno, mito. Perché la leggenda non si ferma, però il cronometro sì, e quando Pietro Mennea tagliò il traguardo dei 200 metri in 19”72 il mondo intero ebbe la sensazione che il tempo sarebbe rimasto “sospeso” per un bel po’. Accadde quarant’anni fa. Il 12 settembre del 1979. Era un mercoledì. A Città del Messico uno stadio semivuoto faceva da scenario alle gare d’atletica leggera dell’Universiade, la piccola olimpiade degli atleti-studenti inventata dall’illuminato dirigente torinese Primo Nebiolo, l’evento che la Campania ha amato e ospitato lo scorso luglio, quattro decenni dopo la leggenda della Freccia del Sud. Buon compleanno, mito. Mennea era lì, all’Estadio Nacional, e leggenda narra che il merito di quella convocazione fosse di Gianni Minà , capace di rompere “intese politiche” che avrebbero voluto l’allora 27enne sprinter di Barletta a Montreal, per la Coppa del Mondo.

Messico e nuvole, suggerisce quella foto d’epoca ch’è una cartolina di memoria collettiva: “re” Pietro in canotta azzurra e pantaloncini bianchi, sul petto il numero 314 e dietro, ma parecchio dietro, gli avversari che ne mangiavano le polveri. Mennea fu medaglia d’oro. Dettagli. O meglio, l’impresa non era lì. Perché il suo rivale, quel giorno, non fu un altro velocista, ma il cronometro. Il suo 19”72 cancellò il 19”83 della “pantera nera” Tommie Smith . Erano le tre del pomeriggio, le undici della sera in Italia, un Paese, il nostro, che viveva nel terrore degli “anni di piombo” e che, come accaduto spesso nella storia d’una Nazione scritta pure con l’inchiostro dello sport, trovò un eroe in cui riconoscersi, per aggrapparsi a lui e correre forte, per scappar via. Sì, proprio come la Freccia del Sud, lontano dalle paure. Buon compleanno, mito. E l’eco di quell’impresa riecheggia fortissimo a Salerno, orgogliosa d’esser stata e sentirsi per sempre una “città del cuore” di Pietro Mennea.

Mica per un motivo soltanto. È un legame antico, annodato alle radici d’una adolescenza che lasciò un segno del destino nel lontano 1967. Correva l’atipica distanza dei 250 metri il barlettano all’epoca, quando stabilì il suo primo record italiano della categoria Allievi sulla pista del vecchio stadio Donato Vestuti. «Feci il primato dopo aver mangiato tre piatti di pasta al forno», ricordò spesso proprio durante la sua avventura all’ombra del Castello d’Arechi. Prima e unica esperienza da dirigente d’una squadra di calcio. Buon compleanno, mito. Erano passati poco meno di vent’anni da quel giorno storico di Città del Messico, quando Mennea diventò direttore generale della Salernitana in volo verso la serie A.

Era il febbraio del 1998, qualche mese prima, nei Trials americani del ’96, Michael Johnson gli aveva tolto il record del mondo: Nello Aliberti , presidente granata d’allora, ostinato nel ribadire che «Pietro, per la sua signorilità, con quel mondo (il pallone, ndr ) non c’entrava davvero nulla», lo volle come lucente anello di congiunzione tra squadra, tifoseria e management . Esempio di stile e operatività, quell’uomo figlio di un’infanzia povera, poi riscattata con ricchezza morale e di bacheca, fu molto più che un uomo immagine per l’ippocampo che s’affacciava all’olimpo del calcio italiano. Buon compleanno, mito. Perché Mennea è morto a marzo del 2013, eppure viene festeggiato ancora. Non il 28 giugno, il giorno del 1952 in cui nacque, ma il 12 settembre. Quel dì, quarant’anni fa, la Freccia del Sud fermò il tempo. E scandire ancora il suo record, pronunciandolo come una parola soltanto, diciannovesettantadue , è come soffiare sulle candeline d’una grande, infinita, storia sportiva che governa la collettività. A Salerno più che altrove.

Buon compleanno, mito.

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