di DARIO CIOFFI

La tragedia s’era appena consumata. E però quel pomeriggio dal cielo rosso sangue su Roma rischiava di diventare un massacro. Sì, sarebbe probabilmente finita così se un ragazzo di Salerno in divisa nera non avesse tirato fuori l’autorità di chi si (ri)trova d’improvviso vestito del compito di metter ordine al caos. Quarant’anni e qualche giorno fa, 28 ottobre del 1979: la storia è scolpita sulla pietra dell’Italia del calcio, e però a raccontarla tutta emerge quel che ancora sarebbe potuto essere e per fortuna non è stato. Derby capitolino, parte un razzo dalla Curva Sud romanista e, dopo oltre 200 metri di volo, colpisce e di lì a poco ucciderà Vincenzo Paparelli, meccanico, marito, papà e tifoso della Lazio. È l’inferno. Per spegnerlo, o almeno provare a placarlo, il salernitano Pietro – per molti Pierino – D’Elia, l’arbitro designato, decide di far quello che nessuno attorno a lui fa: decidere, appunto. «Dissi ai capitani che la partita si doveva giocare, e ch’eravamo pronti a cominciarla – ricorda quattro decenni dopo -. Piuttosto che rischiare una strage, preferii prendermi tutta la responsabilità di dare il calcio d’inizio. Anche se non mi spettava».

Perché “decise da solo”, D’Elia?
Ci guardammo in faccia negli spogliatoi, chiedendoci cosa fare. Arrivarono dei funzionari di pubblica sicurezza, i presidenti delle due società. Ma in generale si sgattaiolava. E così presi in mano la situazione. Per evitare il peggio.

A cosa si riferisce?
Immaginai 80mila tifosi, che avevano appena saputo che c’era stato un morto, riversarsi dagli spalti all’esterno dell’Olimpico. Fu proprio quella scena che mi venne in mente. E allora pensai: “Se non comincia la partita, qui succede la rivoluzione”. Chiamai i calciatori, che furono straordinari interpreti del buonsenso. La tensione scemò pian piano. Ripeto: evitammo il peggio.

Il match finì in parità.
Giusto così. Fondamentale, ribadisco, fu il senso di responsabilità dei giocatori. Capirono che in quel momento erano investiti d’un compito molto più grande. Vincere non contava. Senza la loro collaborazione anche il mio coraggio sarebbe servito a poco.

Era il 1979, e D’Elia era un 33enne arbitro emergente.
Avevo diretto una decina di partite in serie A. Ero al mio primo derby. E mi trovai davanti la tragedia di Paparelli, un ragazzo ch’era andato all’Olimpico a divertirsi. Il primo morto in uno stadio del massimo campionato. Non il primo caso in Italia, perché nel 1963 c’era stato il povero Giuseppe Plaitano nella mia Salerno.
Insomma, giovane e quasi debuttante, cosa provò in quel momento?

Mica facile da spiegare…
È passato tanto tempo.
Non è un problema di memoria. Per me è come se fosse accaduto oggi, anche se sono trascorsi quarant’anni.

E allora?
Ho fatto tanta gavetta in Campania, sui campi del Sud. Arbitrare dalle nostre parti non è mai stata una passeggiata. Anzi. Impari a convivere con le tensioni, a gestire le emozioni tue e quelle degli altri. È chiaro, quella domenica a Roma fu una storia a sé, però lì mi ritrovai forte d’un grande bagaglio d’esperienza. La cosiddetta “palestra” di chi arbitra sui nostri territori.

Dopo il caso Paparelli i derby sono diventati un po’ la sua specialità.
Ne ho diretti parecchi. Anche Napoli-Avellino, per due volte. Ho arbitrato circa 200 incontri in serie A, ma se fossi stato in attività attualmente sarebbero diventati 500. C’erano meno squadre nel massimo campionato ma soprattutto molti “vincoli di incompatibilità”, a cominciare dal non poter dirigere squadre della stessa regione di provenienza, a meno che non si scontrassero tra loro.

Le manca il calcio?
Mi manca il calcio vero. E sono fiero di poter dire d’aver vissuto l’era dei numeri 10, delle grandi squadre come la Roma di Di Bartolomei, il Milan degli olandesi, la Juventus di Scirea.

Il giocatore più corretto che ha incontrato?
L’ho appena nominato. Gaetano Scirea era un uomo d’una signorilità inimitabile. Restava sempre zitto in campo, non protestava mai. Parlava con gli occhi. Gli bastava uno sguardo, a volte, per farti capire che quel fischio era sbagliato. E se lui ti fissava in quel modo, c’era poco da fare: aveva ragione.

Chi le ha dato più problemi, invece?
Sembrerò presuntuoso, però ho sempre gestito abbastanza bene anche i caratteri più “fumantini”. C’era Gentile, per esempio, ch’era un animo molto acceso in partita. Lo avvisavo. E se non risultavo convincente, ecco pronto il cartellino. Un metodo che funzionava.

Sta seguendo la polemica sul Var?
È un’innovazione positiva. Ma bisogna farne un buon uso. Altrimenti si perde soltanto tempo. Inutile rivedere, per esempio, episodi chiari e già giudicati bene in campo. La gente si annoia. La continuità di gioco è fondamentale.
È cambiato il ruolo dell’arbitro con l’assistenza video?
Sì, direi che l’arbitro è diventato un amministratore di condominio.
È un’affermazione abbastanza pesante.
Prenda il caso dei tanto discussi falli di mano: i dubbi sulla volontarietà non vengono mai chiariti dal video. È solo l’arbitro ch’è in campo in grado di capire. Quel grande uomo di Boskov l’ha sempre detto meglio di chiunque altro…
Già: “Rigore è quando arbitra fischia”.
Con personaggi corretti e geniali come lui, ai miei tempi, era impossibile non divertirsi.
Oggi ci si diverte meno, però la violenza di cui s’è parlato in principio, rievocando il 40esimo anniversario della tragedia di Paparelli, non è stata sconfitta.
S’è fatto tanto per provarci. In realtà non è servito a nulla.

E perché, secondo D’Elia?
Il calcio cambia se cambia la società. È una sfida culturale molto complessa, su cui siamo ancora troppo indietro. Qualche giorno fa leggevo d’un allenatore di settore giovanile picchiato da un papà perché non aveva fatto giocare il figlio. Non è certo il segnale d’un Paese che sta cambiando.


L’arbitro salernitano Piero D’Elia
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