Io non l’ho avuto il coraggio di certi miei coetanei, conoscenti e amici, di salire un giorno su quel treno, lo stesso che la scorsa domenica abbiamo “maledetto” ma in direzione opposta, e trasferirmi a Milano. Me l’hanno suggerito così tante volte che c’ho perso il conto, d’andarci, di provare, ché “al Nord è diverso”. Ho sempre fatto in modo che non fosse il momento buono. Mi è mancato il coraggio, è chiaro, però se pensate alle rivelazioni d’un mammone che non voleva rinunciare al ragù di casa, beh, passate avanti. Serenamente. Ché io l’ultima Pasquetta a salsicce, vino, “le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi…” l’ho fatta nel 2003, quando andavo ancora a scuola. Da allora ho cominciato a farmi un mazzo così, prima a zero euro e poi per pochino – e quante volte me l’hanno (ri)detto d’andare a provare a Milano – mentre a casa tornavo quando tutti dormivano e alle cene con gli amici arrivavo (e succede ancora) al momento in cui erano già all’amaro, e mi guardavano in cagnesco tutti, al giornale perché per una volta me n’ero andato via “presto”, a tavola perché pure quella volta ero arrivato tardi.
Insomma, mi sono fatto il mio mazzo e continuo a farlo ogni giorno, ma ai ragazzi del Sud che ora sono a Milano, in Lombardia, quelli che “ce l’hanno fatta” e che lì sono rimasti pure in questi giorni d’un inferno che credevamo esistesse solo nei film, invidio il coraggio ora più d’allora. E penso a loro ogni volta che leggo, ancora, di continuo, ininterrottamente da settimane, le battute più disparate sul Coronavirus che s’è preso le nostre vite, alcune – troppe – neppure metaforicamente. Non ne ho mai scritto un rigo, se non – per i riflessi sportivi che quest’emergenza ha avuto – sulle pagine del quotidiano per cui lavoro, perché ritengo che gli argomenti seri vadano lasciati a chi ne ha la competenze, e infatti quando ho letto uno scienziato dire ch’era un macello, e un altro sostenere che fosse poco più che l’influenza di stagione, beh, ho cominciato a capirci poco. E a restare il silenzio.
Perché il silenzio è rispetto, e lo reclamano le vittime di questa tragedia senza fine. Ma lo leggete che ogni giorno muoiono più di 100 persone? Oggi erano 200, perché ieri se n’erano dimenticato qualcuno…
Accadesse per un terremoto saremmo tutti in fila – sui social, è chiaro – con le maniche alzate pronti a raccogliere macerie, ora invece, mentre i morti soltanto in Italia stanno per toccare le “quatto cifre”, ci ostiniamo a fare battute del cazzo peggiori delle facce di chi le scrive.
Io non ci trovo nulla da ridere. Non ce lo trovavo già quando lessi d’un anziano di Vo’ Eugeneo, in Veneto, la prima vittima, perché poteva essere un mio nonno. E infatti non capisco né accetto la superficialità di chi dice che “tanto muoiono i vecchietti”. In primis perché non è vero. Secondo: perché facendo un lavoro che mi ha insegnato ad ascoltare, soprattutto, ho capito che gli anziani sono spesso molto meglio di noi. Terzo: perché la vita d’un nonnino non vale meno della nostra. Ma proprio per niente!
Ci hanno detto in ogni lingua, fino a poco fa, dopo averlo capito anche loro un po’ in ritardo (scienziati e poi governanti), che la situazione era complessa, delicatissima, adesso drammatica. E invece noi, peggio degli adolescenti impertinenti e un po’ cretini, continuiamo ad avere sempre una domanda, stupida, per non rassegnarci all’idea di dover stare a casa e non avere contatti con altre persone per un po’. Senza ostinarci con stucchevoli “se” e “ma”.
La cosa che sfugge, e quindi inquieta, è che non è un divieto punitivo, è semplicemente l’unico e antichissimo modo di salvarsi la pelle. Per questo la smetterei pure di ripeterci ossessivamente che “andrà tutto bene” senza impegnarci a essere artefici del nostro destino.
Il mio bimbo oggi ha compiuto dieci mesi, ogni mattina mi regala un sorriso che dà uno schiaffo al mondo cattivo, mentre penso che questa realtà somiglia a un brutto sogno e invece sarebbe meglio non svegliarsi mai. E’ ad Andrea, ovviamente, e a tutti i piccolini come lui, che penso quando vedo quelli che se ne fregano e sorridono irresponsabilmente, convinti che il problema non sia loro né nostro, che quest’invisibile assassino uccida solo gli anziani, non qui ma altrove, e che quindi ogni invito di chi governa a rispettare delle regole sia più o meno come una sculacciata da cui sfuggire di corsa.
Chi ve la dà tutta ‘sta leggerezza? A me quest’odissea, che sarei curioso poi di (ri)leggere un giorno tra i libri di Storia, evoca tutt’altro: per esempio il primo piano di Alessia, l’infermiera con il volto segnato dalla mascherina, o la foto della sua collega di Cremona che crolla sfinita davanti a un pc, fino ai medici di Terapia Intensiva che dicono ch’è “un po’ come in guerra” e “tocca scegliere chi curare”. E poi quei numeri che alle sette d’ogni sera crescono: sembra il medagliere d’una Olimpiade ma sono i morti regione per regione, le persone che si ammalano. Diventano freddissimi numeri, peraltro enormi, ma sono dei papà e delle mamme, dei nonni e delle nonne, dei fratelli e delle sorelle… Aspettiamo che tocchi anche ai “figli” per accorgerci di quel che stiamo vivendo davvero?
Ho pianto per 4′ e 30″, l’altro giorno, nell’ascoltare il servizio di Marco Cattaneo di Sky che racconta la sfida al Covid-19 come una partita di calcio. L’ho ritrovato ieri sul web, l’ho rivisto e ho pianto di nuovo. Mi piace e mi dà un brivido quella parte in cui dice: “Sono tutti lì, semplicemente in attesa di riaverci. (…) E sarà il giorno più bello del mondo”.
Siamo seri. Siamo tutti in zona rossa e non c’è un cazzo da ridere!
Scusate lo sfogo. (darcio)

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *