di EDOARDO CIOFFI
Col “decretone” Cura Italia, varato in queste ore dal Governo, sono stati toccati diversi aspetti del Paese e tra quelli che hanno fatto più scalpore c’è sicuramente l’abolizione dell’esame di abilitazione alla professione medica. L’emergenza Covid-19, infatti, sta vedendo diversi medici impegnati nel fronteggiare una situazione che ha assunto contorni inaspettati, a tratti drammatici. Da più parti, specialmente nelle regioni del Nord Italia, maggiormente colpite da quella che l’Oms ha definito una pandemia, si sono registrati numeri impressionanti e in tanti hanno invocato interventi per il personale sanitario.
Ma come sono costretti a lavorare i medici e tutto il personale cooperante all’interno d’un sistema mirato a salvaguardare quel bene primario chiamato salute? Spesso in condizioni critiche. E non bastano le centinaia di lodi tessute da mass media e politici di turno, perchè come nel Marlon Brando cantato nel 1990 da Luciano Ligabue, la maggior parte dei medici è pronta a rispondere che “in fondo siamo sempre qui e non è obbligatorio essere eroi”.
Del resto, come in ogni cosa che si sceglie di fare, s’accettano i pro e i contro che la vita propone, senza piangersi addosso e senza cercare ribalta. Salvare vite umane, o perlomeno provarci, con ogni mezzo e competenza a disposizione, in nome del Giuramento d’Ippocrate, è il compito primario di chi ha scelto consapevolmente questa strada, anche prima del Covid-19, quando probabilmente la parola “eroe” veniva più frequentemente accostata al nome del campione di calcio della domenica, che magari aveva risolto un match con una giocata da tre punti. L’aspetto principale, da garantire a chi opera in questo settore, riguarda la dignità.
Dignità di svolgere un mestiere nel miglior modo possibile, con i dovuti dispositivi di protezione individuali (DPI) che troppo spesso sono assenti. Perché ogni medico ha anche degli affetti, una famiglia, che pure in epoca di “restrizioni sociali” e quarantena vanno tutelati, senza correre il rischio di diventare involontariamente “untori” verso chi abita sotto lo stesso tetto. Negli ospedali, negli ambulatori di Medicina Generale e di Continuità Assistenziale, sulle ambulanze, chiunque si trovi ad operare in ambito sanitario è – come facilmente intuibile – più a rischio di altri.
Nelle zone del Bergamasco, tantissimi medici sono stati contagiati, proprio per un sistema che non ha tutelato a dovere il proprio lavoro. “La Caporetto della nostra professione”, così recentemente il presidente della Federazione Nazionale Ordine dei Medici (FNOMCeO), Filippo Anelli, ha definito la situazione della Lombardia, dove i numeri di contagi e decessi sono stati (e sono tuttora) impietosi. “La situazione è drammatica: turni massacranti, carenze di organico, scenari di guerra. Inoltre, in ospedale mancano DPI, maschere FFP3 e FFP2, visiere, guanti e sovracamici monouso”, è stata la riflessione di Anelli tramite le colonne del portale FNOMCeO.
Non di minor importanza, anche la vicenda legata al numero di tamponi, che in alcune zone del Nord Italia cominciano a scarseggiare. Il Paese, comunque, non ha certo solo queste criticità di carattere organizzativo cui far fronte. Perché tornando al discorso dell’abolizione della parte teorica dell’Esame di Stato, cioè il “lasciapassare” per il mondo del lavoro, la “vittoria” sbandierata in queste ore è solo parziale. Se è vero che oggi i circa 4mila “neoabilitati” (d’ufficio) potranno essere impiegati nel mondo del lavoro, è altrettanto vero che i problemi restano. Perché è oggettivamente impensabile che questi neo camici bianchi possano essere catapultati in “prima linea” a fronteggiare l’emergenza, senza tutela e senza le giuste competenze (e di certo non per colpa loro). Con i posti in Terapia Intensiva che scarseggiano ed i reparti al collasso, spesso privi di personale, servirebbero sì nuove “forze” ma impiegandole con raziocinio.
E qui subentra un altro grande problema della sanità del Belpaese, cioè quello delle borse di specializzazione. Come è stato fatto notare più volte alla classe politica, in Italia non mancano medici, bensì specialisti. Differenza sottile ma sostanziale. Le borse messe a disposizione negli ultimi anni non sono state sufficienti, cioè non hanno garantito la formazione a tutti i camici bianchi. Ergo, un medico che non riesce ad accedere ad una branca di specialità tramite il quiz che solitamente si svolge nei mesi estivi, potrà comunque fornire il suo contributo in alcuni ambiti della sanità ma sarà sempre costretto ad “adattarsi”.
Ad oggi, oltre 10mila medici – numero destinato ovviamente ad aumentare negli anni – che non accedono alle borse di specializzazione, sono “impossibilitati” a completare il proprio percorso post laurea e post abilitazione. L’emergenza Covid-19, però, non ha smosso la situazione a tal punto da prevedere un aumento delle borse. O forse inizialmente sì, come “denunciato” dalla associazione di medici ALS, che tramite la propria pagina Facebook aveva diffuso una bozza del decreto che prevedeva un aumento di 5mila borse di studio per i medici.
All’Art.7 si leggeva di un “incremento delle borse di studio degli specializzandi” ma tale aumento è di fatto sparito. Cinquemila borse, che sarebbero state comunque insufficienti ma avrebbero rappresentato un primo passo per colmare concretamente la carenza, di cui oggi non si ha traccia.
L’associazione ALS ha parlato di un vero “scippo”, cui il Governo dovrà rispondere, annunciando contatti con alcuni politici per chiedere loro di depositare un’interrogazione parlamentare. Attivo, in tal senso, anche il Segretariato Italiano dei Giovani Medici (SIGM), che in queste ore ha scritto una lettera aperta al premier Conte, per avere lumi circa la “scomparsa” delle 5mila borse di specializzazione paventate giorni fa in un’ipotesi di bozza del DPCM.
Perché in un momento in cui il Sistema Sanitario Nazionale sta venendo fuori in tutta la sua fragilità, nonostante l’alacre lavoro che stanno attuando i professionisti del settore, è fondamentale fornire risposte concrete e soluzioni reali ai problemi.