di DARIO CIOFFI
La passione è una cosa seria, però la vita di più. E così, ispirandosi a questo lapalissiano concetto, da qualche settimana l’Italia – con tutto il resto del mondo a seguire – ha sacrificato anche il calcio sull’altare d’una emergenza epidemia rivelatasi devastante, nel nostro Paese più che altrove. Arrivederci pallone, a presto – si spera – sport (più in generale), con un presentimento ch’è però prossimo a diventar un’inquietante e raggelante certezza: se pure un giorno magari non lontanissimo, la data “vicina” più auspicabile sarebbe all’alba di maggio, potremmo tornare a gioire per un gol, a maledire un allenatore per una sostituzione sbagliata e a litigare con un amico fraterno per un rigore concesso o negato, beh, con ogni probabilità accadrà in stadi a porte chiuse. Tutti, senz’alcuna discriminante. Perché proprio in uno stadio, al sua “maestà” Giuseppe Meazza di San Siro a Milano, secondo un’accreditata ipotesi scientifica, sarebbe nato il più importante focolaio di Covid-19 in Lombardia. Era il 19 febbraio scorso e alla “scala del calcio” si giocava Atalanta-Valencia, andata degli ottavi di finale di Champions League.
Così, in una narrazione che neppure il più imprevedibile degli sceneggiatori sarebbe stato capace di regalare a un film che nasce d’amore e poi si rivela di terrore, il “detonatore del contagio” nella prima zona rossa d’Italia andrebbe identificato nell’appuntamento con la storia del calcio bergamasco, per la prima volta nel gotha d’Europa con quella squadra operaia e bellissima di cui tutti quest’anno avremmo voluto esser stati tifosi. Notte di sogni, persino realizzatisi per il popolo della Dea, però rivelatisi incubi alcuni giorni dopo, quando Bergamo e provincia si son trovati a contare casi di positività da Coronavirus, e poi morti, così tanti che quasi se n’è perso il conto in meno d’un mese d’inferno che sembra già esser cominciato una vita fa per quante vittime e quanto dolore ha causato. Una ricostruzione scientifica dell’ultimo periodo, riavvolgendo il nastro a un tempo in cui il Covid-19 pareva pericolo lontanissimo e “scansabile” girando largo dai cinesi, identifica proprio in quel match da 45mila spettatori alla “scala del calcio”, diventata casa in fitto dell’Atalanta per la Champions, l’origine dell’emergenza. Lo stadio di San Siro gremito come le corse della metropolitana, supporters italiani e spagnoli assieme all’ombra del Duomo di Milano. L’espressione “distanziamento sociale”, il famoso metro di luce da rispettare davanti a noi e che oggi ci ossessiona persino quando apriamo il frigorifero, non era ancora entrato nel linguaggio comune, né tanto meno nel modo di fare. Anzi. Si abbracciarono forte, i sostenitori della Dea, ai quattro gol che stesero il Valencia, uccidendo nella culla le speranze di rimonta iberica nella gara di ritorno.
Calcisticamente, era un salto a piè pari dalla cronaca agli almanacchi: Bergamo, con la sua storia da “provinciale” del pallone, nelle prime otto d’Europa, roba da far impazzire una tifoseria che – raccontava uno dei più attenti osservatori del fenomeno ultras – è un rarissimo esempio di totale identificazione tra una squadra di calcio e una città che non è metropoli ma che non accetta “altre fedi”. C’è solo l’Atalanta per Bèrghem, come l’Hellas per Verona e la Salernitana per Salerno, erano gli altri due esempi. Passione viscerale e soprattutto contagiosa.
Già, contagiosa. Stavolta non solo per stereotipata metafora. Qui il contagio ci sarebbe stato davvero, virale, rendendo vana e a questo punto anche impossibile la ricerca del “paziente zero”. Già (molto) prima che prendesse quota questa ipotesi, per fortuna, gli stadi son stati chiusi a doppia mandata e se pure dovessero davvero riaprire il 3 o il 9 maggio – come un po’ tutti sperano, non solo per gli enormi interessi economici che il calcio porta con sé ma pure perché tornare a giocare significherebbe aver intrapreso la fase discendente di questa parabola di morte e paura – è praticamente scontato che le partite si giocheranno senza pubblico. Sottovoce, in questi giorni fatti di tante parole ma nessuna certezza, la prescrizione degli spalti vuoti è stata già anticipata un po’ da tutte le figure apicali del mondo dello sport, dal ministro Spadafora al presidente della Federcalcio, Gravina, passando per il numero uno del Coni, Malagò. E potrebbe esser il compromesso, unico e inevitabile, per concludere comunque la stagione senza però mettere a rischio la salute delle persone. L’esempio di San Siro è una ferita che sanguina, perché quelle immagini di meraviglioso delirio collettivo, di gioia commovente per l’impresa calcistica d’un popolo catapultato in una realtà più bella delle favole, fanno a pugni terribilmente con le cartoline della disperazione che giungono dalla Bergamo di questi giorni, con i mezzi dell’Esercito in fila per trasportare cadaveri, uomini e donne morti da soli, divorati dall’epidemia, senza l’ultimo abbraccio d’un parente né un posto al cimitero per cominciare l’eterno riposo. Sembra tutto così assurdo. E l’assurdità, in questa narrazione, è l’unica lineare certezza.
(dal quotidiano “La Città” del 21/03/2020)