di DARIO CIOFFI

È trascorso un mese ma sembra un anno. O forse una vita. Era il 9 marzo quando questo virus-killer, che spara con il silenziatore e senza neppure mostrarsi mentre ti punta l’arma al cuore, dava il triplice fischio al calcio italiano. In un lunedì surreale, day after del “folle” esodo dal Nord che aveva reso la stazione di Salerno capolinea della paura, il pallone rotolava per l’ultima volta. Lasciando di sé poche immagini confuse tra le prime file ai supermercati e un decreto per “chiudere il Paese” in fase d’elaborazione. Avanzi d’istantanee di stadi già deserti per l’obbligo di porte chiuse: uno steward con l’amuchina al seguito sulla tribuna del Romeo Menti di Castellammare di Stabia, casa “in fitto” quest’anno della Cavese che affrontava il Potenza in un anomalo posticipo pomeridiano, e poi – dalla C alla serie A – Ciccio Caputo che segnava con la maglia del Sassuolo e mostrava un cartello ch’è già storia: «Andrà tutto bene, restate a casa», pennarello nero su carta bianca e senza neppure l’arcobaleno.

Fin qui, va detto, non è andata bene per nulla, e lo sport, tutto, non solo il calcio, è stato inevitabilmente sacrificato sull’altare d’una tragedia che chissà quando vedrà scorrere davvero i titoli di coda. E così lo sfondo dello stadio Arechi, che principesco anche se chiuso a doppia mandata mostrava il suo volto esterno mentre a pochi metri dall’ospedale Ruggi di Salerno decine di camion si preparavano per la costruzione-lampo d’un “reparto anti-Covid” (da finire in dieci giorni lavorando giorno e notte), diventa quasi metafora d’una battaglia ch’è molto più d’una partita. Un segno dei tempi che resterà indelebile comunque vada.

Non è un gioco né si gioca. In un mese che sembra un anno, o forse una vita, sono saltati in rassegna l’Europeo, l’Olimpiade, praticamente tutti i campionati nazionali negli sport individuali o di squadra, eccezion fatta per il calcio che non si rassegna. Perché non può. Né deve, a raccontarla tutta. Due facce d’una stessa medaglia: di qua gli spaventosi interessi economici che comporterebbero perdite sanguinose se la stagione non dovesse esser completata, di là il valore enorme che il pallone può avere nella già famigerata, anche se non ancora iniziata né “dichiarata”, fase-2 dell’emergenza. Sarà il momento in cui l’Italia dovrà rialzarsi tra le macerie d’una economia distrutta, oltre che tra i cadaveri di migliaia di persone uccise dal virus, e la gioia d’un gol, l’incazzatura per un rigore negato, la maledizione urlata addosso a un allenatore che ha “cappellato” la sostituzione decisiva potrebbero aiutare tantissimo a riveder la luce della normalità in fondo al tunnel buio del terrore, del dolore e della quarantena.
Anche per questo, guardando oltre anziché rifugiarsi in retorici e inutili «non ha senso» o «sbaracchiamo tutto», i campionati di serie A e B (per la C, la D e gli altri dilettanti sembra molto più dura) stanno provando a organizzare la ripartenza. Che sarà dolorosa. Per tutti. Per i tifosi che non potranno (ri)mettere piede sugli spalti, visto che a stento si troveranno le condizioni di sicurezza per i giocatori. Per i calciatori che dovranno rinunciare a un po’ del loro ingaggio, trovando l’accordo a metà strada tra le società che non vogliono pagare più un euro e il sindacato che riconosce come attività da retribuire anche gli addominali in salotto con diretta Instagram. Per un sistema che forse riuscirà a guardarsi dentro davvero così da capire che non si va più avanti senza stadi di proprietà, senza sostenibilità, senza aiuti a categorie inferiori che sono un gioco a perdere.

E allora farà pure sorridere Claudio Lotito nel suo esser contemporaneamente presidente della Lazio, co-patron della Salernitana, consigliere federale, leader nell’ombra di Lega A e Lega B, esperto in sanificazioni per storia imprenditoriale nel settore delle pulizie e aspirante virologo che parla del Covid-19 come un Brusaferro o un Ricciardi che monopolizzano i talk show delle nostre tv, però alla fine della fiera sembra aver ragione. La sua tesi della prima ora, per la “nuova idoneità” ai calciatori, gli allenamenti a gruppetti, i ritiri “blindati”, è diventata la ricetta di tutti per ripartire. Il calendario della speranza ha subito slittamenti continui, è chiaro, ma ora le date abbozzate paiono credibili: 4 maggio in campo per la preparazione, alla fine dello stesso mese, o al massimo a inizio giugno, sprint finale per chiudere i campionati.

«Se e quando dovessimo avere luce verde per una graduale ripartenza, il mondo del calcio si deve far trovare pronto», ha detto ieri il presidente federale Gabriele Gravina, commentando la riunione con la commissione medica della Figc, presieduta dal professor Paolo Zeppelli, per la definizione d’un protocollo di garanzia per la ripresa dell’attività. Nella bozza è indicato come seguire clinicamente i componenti della rosa (inclusi medici, fisioterapisti, magazzinieri e dirigenti a contatto con la squadra) e quali esami diagnostici effettuare (del sangue, test molecolari e sierologici), con un’attenzione particolare per chi è guarito dal Coronavirus (diversi i casi di positività in serie A, in B per ora l’unico calciatore risultato infetto è Vacca del Venezia).
La Salernitana di Gian Piero Ventura potrebbe ripartire andando in ritiro a San Gregorio Magno, per preparare lì quel che resta d’un campionato che, per i granata, dovrebbe riprendere dal match contro il Pisa all’Arechi. Sì, proprio lì dove l’altro giorno sfilavano i mezzi per l’ospedale da campo da metter su in tempi cinesi. E pensare che un mese fa, dopo la sconfitta di Perugia, il problema era che, tra infortuni e squalifiche, in attacco restava solo Cerci. E (pure) quella la chiamavamo “emergenza”. Pare davvero trascorsa una vita…

(dal quotidiano “La Città” del giorno 09/04/2020)

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