di DARIO CIOFFI

«Non si piange per una partita di calcio», mi ripeteva incazzato mio padre mentre ci lasciavamo alle spalle lo stadio di Piacenza. Avevo iniziato a piangere lì dentro, dopo che l’arbitro aveva fischiato tre volte. Senza vergogna. Ché tanto attorno a me lo facevano in tanti, quella domenica di 22 anni fa, io ne avevo 14.
Quando al “pallone” affidi tanto, forse troppo, a volte le lacrime scappano. Non serve rincorrerle, né provare a fermarle.
Tornammo di notte e il giorno dopo chiesi di non andare a scuola. Come si fa – pensai -, dopo che la Salernitana è retrocessa dalla serie A con tanti di quei punti che in altri tempi avrebbero portato in Coppa Uefa, a (ri)metterti in un banco e far finta ch’è tutto come prima?
Nulla sarebbe stato più come prima, ma per davvero, quando quel lunedì, il 24 maggio 1999, sapemmo del treno, del rogo, di quattro ragazzi che non avevano fatto in tempo a salvarsi da una follia, ch’erano partiti per quella trasferta senza sapere che sarebbe stata l’ultima, che non avrebbero fatto mai più ritorno a casa.
Si chiamavano Ciro, Enzo, Giuseppe e Simone. Avevano dai 15 ai 23 anni. Età in cui morire dovrebbe esser vietato. I migliori anni della nostra vita.
Quel giorno sì, capii ch’era vero… «Non si piange per una partita di calcio».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *