di ALESSANDRO MOSCA
Trentacinque anni possono esser tantissimi. Ma pure così pochi da far cambiare poco o niente. Il 26 agosto del 1982 la zona di via Antonio Parisi si presentava un po’ come è adesso: il commercio è morto, non ci sono più bar, calzolaio e macelleria. I volti della gente che abitano quelle palazzine sono naturalmente cambiati, seguendo il ciclo di una vita che, in quell’area del quartiere Torrione, da sempre scorre un po’ più lenta rispetto altrove. Quel maledetto giorno di trentacinque anni fa nessuno avrebbe mai immaginato quanto accadde poco prima delle 15: un attentato sanguinoso cambiò per sempre il corso della storia, lasciando sull’asfalto dell’attuale piazza Vittime del Terrorismo tre morti e amplificando la sensazione che la morsa delle Brigate Rosse s’era fatta ancora più stringente. Anche su Salerno.
Caffè maledetto
Il fragore delle mitragliatrici in funzione, le urla strazianti dei militari feriti. Le grida, da dietro balconi e finestre, di donne che in preda al terrore non riuscivano a comprendere cosa stesse accadendo. La colonna sonora della strage di Salerno nessuno proprio la riesce a dimenticare. A distanza di trentacinque anni, infatti, il ricordo di quei minuti resta fisso nella mente di chi, in prima persona, osservò l’azione militare dei terroristi rossi, scesi in campo per appropriarsi delle armi destinate alla vicina caserma Angelucci. Sotto quella pioggia di colpi caddero Antonio Palumbo, militare dell’89esimo Reggimento Fanteria di Salerno, e i poliziotti Antonio Bandiera e Mario De Marco. Avevano preso un caffè pochi minuti prima, i due agenti della Volante. Erano fermi all’allora bar Moka, dall’altra parte del quartiere, nella zona della farmacia Grimaldi. Si misero immediatamente in auto dopo aver udito i colpi. «Il loro arrivo scatenò l’inferno», ricorda chi ha assistito all’assalto alla camionetta da cui furono portati via sei fucili.
«Non erano coppiette…»
Eppure i segni e le sensazioni che sarebbe potuto accadere qualcosa di strano ci furono. Nei giorni precedenti all’attentato, alcune presenze sospette non passarono inosservate. «C’era una coppia ferma per giorni in un’auto nei pressi di un balcone di via Ruggi. Pensavo fossero giovani in cerca di un posto per appartarsi. E invece…», il nastro del tempo riavvolto ricordando l’ingenuità del tempo. Quelle “presenze sospette” furono continue: in via Ruggi, sul lungomare Marconi, in via Mantenga, alle spalle delle palazzine dove ci fu l’agguato. Il piano del gruppo d’assalto del Partito della Guerriglia fu studiato in ogni dettaglio. Ed eseguito con una brutalità estrema.
Le sentinelle, Nadia e l’albero
Quella zona di Torrione, oggi come nel 1982, d’estate è popolata da bagnanti che, a ogni ora, invadono le strade. In tanti, intorno alle 15, stavano rincasando cercando un po’ di refrigerio dopo un tuffo in mare. I brigatisti lo sapevano. Ed erano certi che, al momento dell’attacco, ci poteva essere il coinvolgimento di qualche civile. Le “sentinelle”, arma in mano e volto coperto, furono piazzate in più zone: nei pressi del bar Marconi, sfondarono un portone e obbligarono i passanti, sotto minaccia, ad entrarci. Così pure fu all’inizio di via Ruggi e su via Posidonia. Un modo per provare a isolare l’area dell’agguato. Poi entrarono in azione, senza farsi alcun scrupolo. Tutti, ma proprio tutti, cercando di scrutare qualcosa dalle finestre delle loro abitazioni, ricordano la figura di una donna – che poi si scoprirà essere Nadia Ligas, colei che qualche anno prima aveva fornito l’auto nella quale fu trovato il corpo di Aldo Moro – con una mitragliatrice: al rimbrotto di un’anziana atterrita rispose mostrando l’arma e intimando di fare silenzio. Il dito sul grilletto lo tenne fisso per minuti, facendo partire una serie infinita di proiettili. La leggenda vuole che un colpo, per anni, rimase incastrato nel tronco di un albero dove adesso c’è il monumento in memoria delle vittime.
Salvatore e i feriti dimenticati
Il tempo, poi, non riesce a cancellare neanche altre scene. Come quella di una madre e di un padre, inconsolabili e disperati nel vedere il loro figlio in una pozza di sangue. Erano i genitori di Salvatore, il giovane studente colpito da uno dei tanti proiettili vaganti sparati all’impazzata: abitava al quarto piano di una palazzina lì vicina, era uscito fuori al balcone sperando che il maestrale facesse il proprio dovere, dandogli sollievo nelle ore di studio. Un colpo, invece, lo trafisse: non perse la vita ma pagò le conseguenze di quella tragedia per anni. Peripezie che hanno dovuto affrontare pure Salvatore Mancì, il sovrintendete capo della polizia che per anni ha denunciato di essere «dimenticato dallo Stato» e mai invitato alla solenne cerimonia che ogni anno si tiene a Torrione, così come i soldati di leva Talamo Ventura e Sergio Garau. Non li hanno dimenticati i tanti giovani, ormai diventati uomini, accorsi sul quel luogo di morte. Che da trentacinque anni porta il segno di un ricordo terribile.
(del 29 agosto 2017)