di DARIO CIOFFI
Qualche giorno fa ho letto “È solo pallone” di Ciro Romano, una delle mie penne preferite, e mi è scattata quella che in italiano non saprei come definire, perché la “rota” o la “nsiria” sono parole dialettali non traducibili da nessuna – seppur evoluta – versione di Google Translate.
Ho letto di Bergamo ’95, dei tifosi partiti ragazzini e tornati uomini, e la mente s’è fatta il suo viaggio nel tempo, nei ricordi, nella fantasia e nella realtà che si mischiano quando provi a metter ordine nel cassetto in cui custodisci le emozioni che ti hanno segnato l’anima. Non sono mai stato bravo a tenere ordinati gli oggetti, figurarsi le emozioni…
E però i flashback scorrono, uno dopo l’altro, parallelamente a quel racconto, gocce di memoria che fanno oceano e in cui si rispecchiano quei giorni, prima che arrivasse Quel Giorno, vissuti con la testa d’un bambino cresciuto a pane, Holly&Benji prima d’andare a scherma e 4-3-3 di Delio.
Giugno 1995, allora. L’attesa, il pathos, i primi fumogeni da accendere nel parco comprati con le carte verdi da 5mila Lire a testa, i festoni pronti ma nascosti “ché non sia mai portassero male”, le interminabili ore passate con la mia prima comitiva aspettando l’arrivo d’una domenica che dà senso a tutto (o almeno a qualcosa che fin da piccolo percepisci come importante, e che resta tale pure quando assumi la consapevolezza del “troppo”).
Ho 10 anni e non sono grande abbastanza per andare allo stadio Atleti Azzurri d’Italia (oggi non si chiama più cosi, ma gli sponsor all’epoca stavano al massimo sulle maglie), per noi c’è la diretta su RAI 3 “solo per i residenti in Campania”. È una cosa così strana che finché non la vedi non ci credi. Così fino a un minuto prima del fischio d’inizio, e al “buon pomeriggio” detto dalla voce garbata e familiare di Giorgio Martino, convivo con il terrore di doverla ascoltare per radio, romantico quanto si vuole, però sentire prima il boato e non sapere se è “gol”, “parata”, “fallo” o “fuorigioco” mi ha tolto anni di vita in quei centesimi di secondo tra un “ohhh” e la voce del cronista.
La diretta tv c’è. La Curva granata pure. E si prende l’occhio, anche in uno stadio in cui se si perde uno spillo non cadrà mai a terra. Un muro umano di gente che spera.
La vediamo da Stefano, anzi no, anche se non ricordo il perché. Ricordo il cambio di corsa, il trasferimento da una casa all’altra. Finiamo nella cucina di Dario Cosenza, è lì che la memoria confusa d’un pomeriggio frenetico, nevrotico, maledetto e però indimenticabile, fissa i chiodi che non andranno più via dalla testa. Segna Ganz e andiamo subito sotto, ma siamo sempre vivi. Secondo tempo, punizione per noi, Strada dà un giro da impazzire e Ferron ci resta di pietra. Ah, che è l’ultima di campionato, che l’Atalanta è quarta e la Salernitana quinta, che a loro per andare in serie A basta un pareggio e a noi serve solo vincere do per scontato che lo sappiate già tutti…
Diciassette minuti per restare aggrappati al sogno, per passare in due stagioni dall’Atletico Leonzio e il Giarre, serie C1 girone B, al Milan e alla Juventus nel campionato più bello e forte del mondo (allora sì che lo era). Ventisette anni sono troppi per ricordarsi tutti quei 17 minuti più recupero, e serve Google oggi per dare un tempo certo all’attimo in cui ci ritroviamo a calpestare i cocci della nostra favola: nove minuti dopo l’1-1, all’82’ della partita, il gol di Valentini.
In A ci va l’Atalanta del Mondo. Piange Chimenti. E piange Grimaudo. Piangiamo tutti o forse no, perché i bambini che stanno per diventare ragazzi, pretendendo già d’esser chiamati così, non piangono, o almeno lo fanno solo dentro, senza farsi vedere (che cazzata quest’autocensura del più umano dei sentimenti!). Fa male da morire, questo è sicuro. E però siamo orgogliosi lo stesso. Di Chimenti-Grimaudo-Facci / pausa / Breda-Iuliano-Fresi / pausa ancora e poi tutti d’un fiato / Ricchetti-Tudisco-Pisano-Strada-De Silvestro, letti dall’1 all’11, come da tradizione ereditata (si dice fosse “la piramide di Cambridge”, all’alba d’una tattica da tutti all’attacco).
La neopromossa di Delio non ce l’ha fatta ma le battiamo le mani comunque. Bergamo ’95, per me e per chi è “di quegli anni”, resterà la prima cicatrice sul cuore granata, prima di tante e però di quelle a cui sei così affezionato che la guardi, la indichi, l’accarezzi e t’accorgi d’essere invecchiato mentre butti fuori un “pisciatone” da “mi ritorni in mente” così lungo che su Instagram neppure ci sta perché in 2200 caratteri quel ricordo soffoca, e invece riviverlo, con tutta l’autentica confusione del tempo trascorso, ti fa respirare.
Ai granata di oggi, che così tanto vivono la simbiosi con il popolo che li accompagna verso un destino ignoto ma da scoprire tutti insieme, non si chiede “vendetta” (parolaccia!) né riscatto. Solo di conoscere pezzettini di questa grande storia di passione popolare che rappresentano. Che è più d’un almanacco. È la personalissima storia d’ognuno di noi.