di DARIO CIOFFI

Chiedeteci tutto, e però non di smetterla. Ché d’emozionarci, d’abbracciarci, di piangere mentre gli occhi ridono, ne abbiamo ancora voglia. Lasciatelo decidere a noi quando ci basterà. Sì, certo, il futuro è già oggi, o forse ieri, la Salernitana per l’anno che verrà ha cominciato a prender forma fin dall’alba in cui sfumava una domenica da impazzire, ma siccome vorremmo che quella notte non finisse mai noi continuiamo a (ri)viverla in ogni modo, in ogni momento, in ogni luogo.

È come una strada del cuore che con un percorso obbligato ci riporta lì, all’Arechi gremito, alla scenografia più bella di sempre che la Curva Sud abbia realizzato, un kolossal non immaginabile né ripetibile altrove, alle lacrime di bimbi, adulti e anziani, uomini e donne con l’anima a pezzi mentre l’Udinese si prendeva lo stadio con il nome da principe e stravolgeva un copione troppo prevedibile e banale, a ben pensarci adesso, per poter appartenere alla storia della Bersagliera.

La goleada subita a casa nostra, l’umiliazione, la disperazione, e però pure quell’ultima speranza a cui restare aggrappati: Venezia, il Cagliari che spingeva ma non segnava, il cronometro che scorreva d’una lentezza invincibile, i minuti che sembravano ore e gli occhi persi in punti indefiniti del vuoto, sguardi smarriti in una dimensione surreale a riempire un tempo sospeso e ingovernabile, al quale affidare nient’altro che quel che restava d’un sogno rimasto vivo in mezzo a un incubo. Pregava più gente l’altra notte all’Arechi che la domenica in Vaticano, pregava e piangeva aspettando che si compiesse un destino paradossale, che a riavvolgere il nastro della stagione altro non è che il degno epilogo d’un anno d’irragionevole meraviglia, d’un assurdo che diventa favola, d’un calvario che si fa delirio, gioia immensa, suggestione infinita.

Sì, Salerno oggi s’è ripresa tutto. Un anno fa, dopo aver ritrovato la serie A che mancava dal tramonto del secolo scorso, la città festeggiava senza godersela né sapendo se ne avrebbe davvero goduto. I granata avevano vinto un campionato nel deserto, visto solo in tv, e la mannaia della multi-proprietà s’abbatteva su una squadra e un popolo che non conoscevano certezza.

Tutto strano, anomalo, incredibile: l’iscrizione sub iudice, il trust e trustee con quei comunicati in criptico burocratese, l’obbligo di vendere entro il 31 dicembre, le offerte vere, quelle presunte e le ipotesi improbabili, le mortificazioni sul campo, l’orgoglio urlato dalla gente in ogni stadio d’Italia in quel “che vinca o che perda” gridando sempre più forte la seconda parte, mentre la prima era sconosciuta. Fino alla notte di Capodanno, e quei cenoni vissuti come dei rimbambiti in ogni casa: quasi “morti” prima del dolce, ubriachi di felicità al momento del brindisi senz’esserci ancora bagnati le labbra. Era la fine d’un gioco perverso che aveva trasformato la Salernitana in una Cenerentola che a mezzanotte avrebbe perso la scarpetta, e però che s’è salvata un minuto prima del dodicesimo rintocco, mentre Amadeus avviava il trenino di benvenuto al 2022.

Il passaggio di consegne da Claudio Lotito a Danilo Iervolino s’è consumato lì, e così il vecchio cuore granata, sofferente e però duro a morire per tradizione ultra-centenaria, ha ripreso a battere forte. Walter Sabatini, condottiero stoico d’una stagione storica, ha rivoluzionato e rimesso in piedi la squadra tra le macerie d’un campionato in cui chiunque camminava su quel che restava dell’ippocampo, e così la Bersagliera è tornata a esser un tutt’uno con il suo popolo.

Il resto è opera di Davide Nicola, che sapeva di non poter cambiare l’inizio ma di dover cominciare a fare di tutto per (ri)scrivere il finale. Ci è riuscito con qualcosa che calcisticamente somiglia più al miracolo che all’impresa, e con l’aiuto d’una tifoseria “gigante”, che ha spinto la Salernitana anche quando crederci era esercizio complesso, persino impossibile, e per riuscirci toccava quasi mentire a se stessi. Tutto lecito, cosa (non) si fa per amore…

La Salerno che da giorni non riesce a parlar d’altro è una città – una piazza, allargata a ogni cuore granata sparso per il mondo – che sente d’esser dentro una storia fantastica: l’Italia la racconta e noi ne siamo protagonisti, tutti, ciascuno per la propria piccola parte, anche solo per esserne stati spettatori, perché la salvezza di questa squadra data al 7% è qualcosa che dà l’esatta dimensione di come l’impossibile certe volte (poche, ma esistono) non sia un fatto, ma solo un’opinione.

Si dice, si spera e si pensa, che possa essere appena l’inizio. Che la nuova Salernitana, per la prima volta nella sua esistenza pronta a disputare il secondo campionato consecutivo di serie A, possa esser all’alba d’un ciclo importante, ambizioso, roba capace di disegnare una realtà più bella dei sogni. Però questo sarà racconto del tempo che verrà.

Oggi siamo ancora dentro quella notte, né abbiamo voglia di svegliarci. E così rivediamo per la centesima volta la scenografia di “C’era una volta a Salerno”, la corsa di Nicola tra gli abbracci e quella di Radovanovic con una torcia che fuma felicità, i video dell’Arechi che salta, grida, balla e s’abbraccia, e pure quelli – i video – dei facili profeti d’una retrocessione annunciata e inevitabile.

Certo, adesso qualcuno ce lo fa notare: “La smetti di vedere sempre le stesse cose?”. Non vogliamo smetterla, ma forse sarebbe ora di pensarci. E di guardare oltre. Quasi ce ne convinciamo, proprio quando Dazn ci spara online “W Sabatini, salvezza 7%”, il docu-film che narra trattative, notti insonni, “scleri”, dialoghi, certezze, paure e speranze del ds che ha incarnato gli stati d’animo passionali, esasperati e battaglieri d’ogni cuore granata. E così ricominciamo daccapo: a sentire i cori della Sud, a rivivere l’angoscia d’esser quasi retrocessi, l’esaltazione della riscossa, il terrore di non farcela sul più bello, l’eccitazione di quel fischio finale a Venezia con l’Arechi impazzito e gli abbracci che fermano il tempo.

Ci emozioniamo e piangiamo di nuovo. Chiedeteci tutto, e però non di smetterla. Ché non siamo ancora pronti…

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