di DARIO CIOFFI
Più passa il tempo e più penso che i social siano come i buffet: i due luoghi in cui l’umanità dà il peggio di sé.
Ma qui la situazione è seria davvero.
Ho letto con sconcerto ma senza sorpresa – le due cose non si contraddicono – il post di Linda Cerruti, campionessa di nuoto sincronizzato alla quale hanno scritto le più svariate volgarità per una foto in cui si mostrava “a testa in giù e in spaccata” con le otto medaglie vinte all’Europeo di Roma. Lei ha precisato ch’era una “posa artistica” tipica del suo sport, ma non ce n’era bisogno, perché contro certi cafoni senza freni inibitori (le definizioni sarebbero tante) che popolano i social pensando di poter proferire ogni offesa a chiunque non c’è proprio nulla da precisare, né tantomeno da giustificare.
Ovviamente quello di Linda Cerruti è solo un esempio. L’ultimo di milioni, di miliardi.
Io che dei social sono un convinto fruitore dal 2008, ringraziandoli perché hanno avuto infiniti meriti, in primis averci dato la possibilità di restare in contatto con persone che viceversa avremmo perso di vista e con le quali ci fa invece piacere condividere reciproche informazioni sulle nostre vite, ogni giorno mi domando come sia possibile che una società che tutto sommato, camminando per strada, un minimo di normalità ancora te le fa percepire, nell’universo del web mostri così tanta superficialità (ho edulcorato assai!), maleducazione, insensibilità, totale assenza di rispetto verso un altro individuo che nella maggior parte dei casi neppure si conosce.
E da questi commenti non si salva nessuno.
Sotto i candidati alle prossime elezioni svolazzano insulti d’ogni tipo: è tutta “munnezza“, anche se magari quella persona nella vita s’è fatta un mazzo così senza intascarsi manco 50 centesimi trovati a terra.
Sotto un post in cui si dava notizia d’un poverocristo morto a Cuba per “Vaiolo delle scimmie” peggio ancora, perché – per centinaia d’individui, mica uno solo – quella era “notizia allarmista” e allora ce la si prende con la vittima, come se avesse scelto di morire e far preoccupare gli altri.
Sotto il link di cronaca d’una tragedia familiare di qualche giorno fa a Giffoni, storia tremenda di per sé, un’inquietante divisione in squadre: di qua quelli che vogliono la pena di morte per la moglie assassina e di là quelli che “ha fatto bene, 10/100/1000 volte gesti così ché se l’ha ucciso di sicuro il marito era una belva”. Senza sapere di cosa di parla, senza conoscere nulla, senza – troppe volte – neppure aver letto il testo di un articolo (impeccabile, con i condizionali del caso) che provava a spiegare l’attività investigativa. Come fosse un sondaggio – tipo: mare o montagna? – a cui si sente il dovere di rispondere.
Un voltastomaco senza fine. Un’apoteosi dell’ignoranza umana che sfugge a ogni più pessimistica previsione fatta negli anni in cui i social aprivano questa grande opportunità ch’è la piazza virtuale, in cui la discussione, il confronto e la condivisione potevano diventare fonte d’arricchimento per ogni utente.
In certi casi lo è stato, lo è, certo, ma il chiasso che fa la peggio specie è troppo fastidioso per far finta che sia tutto normale e soprattutto lecito. Perché lecito non lo è affatto.
Qualche giorno fa, per renderla meno pesante e far capire che non sono sul “disadattato andante” a mia volta, una pagina satirica che seguo con simpatia, e che fa acuta ironia sulla Salernitana del calcio, ha pubblicato la foto dell’avvocato del club “giocando” sulla sua somiglianza con un allenatore senza squadra, e quindi ipotizzando un toto-esonero dopo due giornate. Idea carina, faceva sorridere. Certi commenti invece facevano proprio ridere. Per non piangere. Perché una consistente parte degli utenti l’ironia non l’ha capita – e vabbè, su questo non facciamo “professori”, capita! – ma soprattutto perché molti di questi si sono scatenati in commenti con toni offensivi, dato che troppo spesso sui social funziona così, non si dice “non sono d’accordo”, s’attacca senza educazione chi la pensa diversamente.
A volte mi chiedo se per strada ci si comportasse così, con lo stesso metodo: dovremmo vivere chiusi in casa o scapparcene su isole senza wi-fi.
Il dubbio è: ci siamo ridotti così male perché i social hanno causato una “degenerazione” o stavamo già tanto inguaiati e la nuova era ce l’ha solo rivelato?
Prima che ciascuno avesse il proprio account, il peggio di sé l’umanità lo tirava fuori in certi buffet, dove ci si scanna fino all’ultima tartina. La soluzione qui è ripiegare sul servizio al tavolo.
Per i social, invece, la vedo più dura…