di STEFANO MASUCCI
A regnare è il silenzio. Religioso, ossequioso, quasi assordante. Lo stesso silenzio spazzato via dalla violenza pochi minuti prima delle ore 15 del 26 agosto 1982. La mattina dell’oggi lascia spazio al primo pomeriggio di ieri, esattamente 40 anni fa Salerno conosceva definitivamente il terrore. E il terrorismo. Le Brigate Rosse avevano colpito pure in una città dal peso geopolitico di gran lunga inferiore a quelle del Triangolo industriale (Torino-Milano-Genova), centro nevralgico dell’economia dell’intera nazione, o della capitale d’Italia e simbolo del potere del Paese, Roma. Salerno, Torrione, via Antonio Parisi, ora Piazza delle Vittime del Terrorismo: a due passi dal Lungomare Marconi. Sarà per sempre triste teatro di morte, dove persero la vita Antonio Palumbo, Antonio Bandiera, Mario De Marco.
DA PAOLO ROSSI A GIOVANNI ZACCARO.
Era un caldo giovedì, quello del 26 agosto 1982. Un mese e mezzo prima la Nazionale del ct Enzo Bearzot aveva compiuto l’ultimo e decisivo passo verso l’evoluzione nell’Italia Mundial, uno spento Paolo Rossi si era trasformato definitivamente nell’ Hombre del Partido, capace di “matare” il Brasile con una tripletta e aprire le danze anche in finale contro la Germania Ovest, nel 3-1 finale firmato anche da Tardelli e Altobelli (di Spillo il sigillo che portò il presidente della Repubblica Sandro Pertini a esclamare con entusiasmo, e con tanto di gesto mimato a rafforzare il concetto, “Non ci prendono più!”).
Per le strade riecheggiava ormai sempre più fioco quel “Campioni del Mondo” scandito con orgoglio per tre volte da Nando Martellini, era possibile rivivere gli ultimi fasti della gioia nei resti desolati di qualche festone azzurro o tricolore. I tifosi della Salernitana, invece, speravano all’alba di un nuovo campionato, e con nemmeno troppa convinzione, il ritorno in serie B quindici anni dopo l’ultima volta, affidando al bomber coi baffi Giovanni Zaccaro le ambizioni di lasciare la terza serie per riabbracciare la cadetteria, per la quale bisognerà però attendere ancora quasi un altro decennio. Erano i sogni e le passioni di un intero popolo, che sperava di annegare una stagione tremendamente difficile nella cura italica per eccellenza, l’ossessione per un pallone e 22 ragazzi pronti a darsi battaglia. Una battaglia che faceva il paio con altre e più sanguinolente lotte. Erano le battute conclusive degli Anni di Piombo.
L’AGGUATO.
Colpi di coda senza alcuna prospettiva, diranno gli storici a posteriori, analizzando anche i risultati conseguiti nella lotta al terrorismo dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e i primissimi effetti della legge n. 304, che prevedeva forti sconti di pena per chi avesse dato contributi utili alla lotta contro l’eversione. Fra le ultime pallottole del terrorismo italiano, ci sono anche quelle mortali, e infinite, sparate in un caldo giovedì, quelle del 26 agosto 1982, a Torrione, nel cuore della zona orientale di Salerno. Erano passati più di 4 anni dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro e dai quei 55 giorni (16 marzo – 9 maggio 1978) ritenuti il salto di qualità definitivo delle Brigate Rosse verso una linea quasi esclusivamente militarista.
Il Partito della Guerriglia, che si era formato dall’unione fra la colonna napoletana delle Brigate Rosse, guidata dal “teorico” Giovanni Senzani, e il “fronte delle carceri” costituito da dissidenti brigatisti staccatisi nel 1981 dalle BR, squarciò a suon di colpi il silenzio di quei minuti, la voglia di chi era “salito” dal mare intorno all’ora di pranzo per godersi un po’ di siesta alla “controra”.
Il gruppo di fuoco guidato da Natalia Ligas (implicata anche nel rapimento e nell’uccisione del presidente della DC, da via Fani a via Caetani), entrò in scena questa volta a via Antonio Parisi per impossessarsi delle armi di un convoglio dell’Esercito destinate alla vicina caserma Angelucci, colpendo Antonio Palumbo, militare dell’89esimo Reggimento Fanteria di Salerno, che morì quasi un mese dopo in ospedale. Un inferno di colpi sparato dal commando (una decina gli elementi), molti dei quali sparati anche ad altezza uomo e verso le finestre di qualche cittadino insospettito dal fragore, riversatisi poi sui due poliziotti Antonio Bandiera e Mario De Marco, che pochi secondi prima di udire un rumore per loro inequivocabile ed entrare in azione, avevano consumato quello che non sapevano sarebbe stato l’ultimo caffè della loro vita, nei pressi dell’allora Bar Moka. Sei i fucili portati via, tre le vittime (il più anziano di loro aveva trent’anni, gli altri due erano poco più che ventenni), sei i feriti, tra i quali due civili, prima del nuovo silenzio. Interrotto dai lamenti strazianti. E dal rimbombo di frasi che mettono i brividi. “Non è morto, spara, spara…“, oppure “Muori bastardo“.
E poi ancora silenzio, sottofondo dell’incredulità di un intero quartiere, lo stesso silenzio che si è respirato questa mattina, a pochi passi dal mare, per il 40° anniversario della Strage di Salerno. Di quel triste ricordo resta un monumento alla memoria, in quella che è diventata Piazza Vittime del Terrorismo, che come tanti altri luoghi simbolici della nostra città meriterebbe tutt’altra attenzione (e manutenzione), a partire da una targa sbiadita, a differenza del ricordo e della memoria, sempre vivissima e impossibile da dimenticare per i familiari delle vittime, e per i tanti residenti di Torrione all’epoca dei fatti testimoni involontari dell’accaduto (QUI IL LORO RACCONTO)
IL RICORDO.
“Più che alla persona fu un attacco alla divisa, al loro giuramento di fedeltà alla Repubblica Italiana”, hanno spiegato autorità militari e istituzionali (presenti tra gli altri il questore di Salerno Giancarlo Conticchio e il sindaco Vincenzo Napoli). Commoventi le parole di Maria Antonietta Iuliano, rimasta vedova a soli 20 anni dell’agente Mario De Marco. “Per me è sempre il primo giorno, il dolore è sempre presente, un amore stroncato. Lui ha perso la vita, e anche la mia è cambiata per sempre, anzi l’hanno tolta pure a me”. La voce si affievolisce, quasi fino a scomparire del tutto. Se la memoria, per quanto atroce, serve per non dimenticare, c’è da fare spazio al silenzio…