di DARIO CIOFFI

L’umanità è divertente. Aiuta a passare il tempo”. E la bella scrittura di più.

Aggiungo questa frase a quella virgolettata di Olga, che a sua volta l’ha virgolettata a Clara, voce narrante e protagonista di “Ragazze perbene” (NN Editore), il libro che mi ha fatto compagnia sui voli per e da Sofia, in viaggio per Plovdiv 2023, il recente Mondiale giovanile di scherma, lo sport in cui ho conosciuto l’autrice d’un lavoro che, parola di social, ha fatto parlar tanto di sé. E adesso ho capito anch’io il perché.

Partiamo col raccontarla tutta, ché il vantaggio d’avere “un sito tutto tuo”, insieme a pochi amici fraterni, toglie dagli imbarazzi del rispetto delle regole che non conosci. Si può giocare a carte scoperte. E confessare che, in vent’anni – tra qualche mese – di normalissima ma sempre “battagliata” carriera giornalistica, ho scritto di tante cose: partite di pallone (soprattutto), alcune importanti e altre inutili (e spesso mai viste), morti ammazzati (qualcuno), giudiziaria (non tantissima ma “palestra” preziosa), politica, persino concerti, eventi prestigiosi o improbabili mascherati dietro l’essenza di “marchette” stellari, comunque principalmente sport e da due anni ormai quasi soltanto di scherma. Insomma, di tutto un po’, tranne che – salvo rarissimi casi di cui ho francamente scarsa memoria – recensioni di libri. Benché ne legga a ritmo incessante.

Quindi, se citerò particolari effimeri, andando lontano dal focus che solitamente vuole la ritualità di “pezzi” del genere, siate buoni. Non è mestiere mio…

Di “Ragazze perbene”, però, mi andava di scrivere. In primis perché Olga Campofreda che lo firma, prima d’esser “perbene”, è una ragazza della scherma, il nostro piccolo mondo, persino più piccolo della Caserta che lei racconta, e dove si vive, non per consumato stereotipo, come una grande famiglia. E in cui questo vissuto si sviluppa in una dicotomia: o ti senti sempre – e tanto – legato, pure se ti sei visto poche volte e mai più per decenni, eppure sempre in qualche modo legato resti, oppure senti l’invidia che ti porta a “snobbare”. Ecco, per me vince il primo caso. E così appena ho saputo di “Ragazze perbene” l’ho cercato subito in libreria, e quando l’addetto di Feltrinelli a Salerno me l’ha trovato al primo colpo ho percepito che stava marciando spedito. Cosa che, di questi tempi più che in altri, non avviene mai per caso.

Preamboli autoreferenziali finiti. Vado dentro le righe di questo libro, scritto – a mio modesto parere – divinamente. Definizione che non è né pomposa né generosa, semplicemente appropriata a uno stile che mischia citazioni “raffinate” a parole del linguaggio comune dei territori che narra. Tipo quando leggi “lo scuorno”, ché non c’è parola migliore che riesca a prenderti per mano e portarti in mezzo alla gente, alla cultura e all’essenza che si raccontano. Letteralmente, dal Google Translate del dialetto campano, significa “vergogna”, e però certe parole non vogliono traduzione. Le svuoteresti del loro fascino…

Soggettivo e anche oggettivo, il valore della bella scrittura, quella che non solo “aiuta a passare il tempo” ma salva pure un po’ l’anima, è soltanto un elemento che mi fa sperare che Fiumicino-Sofia duri un pochino di più di quanto previsto da Wizz Air. Molto (altro) ce lo mette il racconto, che per chi come me – e come l’autrice – è figlio del tramonto del secolo scorso regala elementi d’una familiarità impressionante. Le chat notturne con gli amici del liceo, rivoluzione epocale per una generazione che si gestiva le “ricariche da 3 euro” perché pagava 15 centesimi (e prim’ancora 200 lire) a SMS se non in tempo di Christmas Card. Gli squilli dall’indefinito significato, coi telefoni che trillavano aprendosi a un milione d’interpretazioni, a voler filosofeggiare. Persino i jeans con scritto “Rich” sulle natiche, per coppie di lettere, che “si portavano assai” anche se l’etichetta d’uno che “si porta” sapevi non ti appartenesse affatto.

E poi il “branco” degli amici maschi, quel desiderio, ch’è più che altro un dovere morale, di mostrarti all’altezza degli altri per ottenere rispetto senza sentirti “sfigato” (che fessi ch’eravamo, da adolescenti!), e al tempo stesso l’asticella sempre alta delle aspettative degli adulti che spesso arrivano a farti fare a cazzotti (“mazzate” che senti dentro, non fuori) tra quel che vorresti essere, e avresti bisogno del tempo che serve per capirlo, e quel che gli altri hanno già deciso che dovrai diventare.

Nei dettagli della storia di Clara e Rossella, Luca, Leo e tutti gli altri, non entro. Perché i libri belli vanno letti, e se qualcuno, attraverso questo centinaio di righe, s’incuriosirà e lo farà, beh, ne sarò contento.

Mi limito ad aggiungere che nell’evoluzione della storia c’è nulla di scontato, che l’imprevedibilità degli eventi, attraverso pieghe sorprendenti ma mai surreali, dà energia e dinamicità a un racconto che si sviluppa e finisce in crescendo, lasciandoti fino all’ultima pagina del capitolo conclusivo la curiosità di capire quale sia il punto d’arrivo, la voglia che quei pochi fogli che ancora ti senti tra le mani non siano ringraziamenti e “gerenze” varie (nei giornali si chiamano così) ma altro inchiostro su vicende che riescano a delineare il finale.

A tratti – così ci capiamo, che il pezzo non è “commissionato”, anzi – mi sono lasciato andare a un’idea, che personalmente combatto, che nella morale del libro ci fosse il consumatissimo stereotipo del coraggio che solo chi parte dalla terra natia possiede, marcando cioè la linea tra i ragazzi del Sud con la valigia sul letto che ce l’hanno fatta e quelli che invece si sono accontentati di restare comodi a tavola a gustarsi il sugo di mamma’. È stato un pensiero del volo d’andata, quando ho (ri)cominciato dal principio le poche pagine lette giorni prima. Sul Sofia-Napoli (dove stranamente non è scattato l’applauso all’atterraggio, ché sul volo all’alba di Pasquetta tornavamo in pochi), con scalo a Vienna, questo pensiero è stato scacciato via dai dettagli con cui Olga disegna le inquietudini di Clara nella quotidianità di Londra. Nel suo uscire dall’equivoco – e dallo stereotipo, appunto – che basti un’etichetta da “fuori sede” per sentirsi migliore di chi è rimasto, e che magari nel restare ha avuto non meno coraggio di chi ha scelto di partire. Negli ultimi animatissimi scambi di battute della protagonista con Luca e Rossella in cui i tre, a turno, si sputano fuori le parole che da anni tenevano dentro. Nessuno di loro può definirsi “uno che l’ha fatta”. E però tutti, ciascuno a proprio modo, con i loro impacci e le rispettive ossessioni, incarnano una generazione che vorrebbe farcela o almeno ci prova con gli strumenti che ha ricevuto o scartato dalla terra di cui resta figlio.

Ragazze perbene” è tutto questo, e molto altro ancora. Un viaggio che ti resta, che non ti giudica ma ti racconta, pure se sei maschio ma un pochino “perbene” sì, ti ci senti, e nel leggere alcuni passaggi ti viene da sorridere e magari sforzarti di cambiare. Si dice – l’avrà scritto qualcuno – che siamo, un po’, anche i libri che abbiamo letto. Ecco, questo, di leggerlo, vale la pena. E poi fate voi…

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