di DARIO CIOFFI
La bellezza di sentirsi popolo, di riscoprirsi un tutt’uno tra la gente e la squadra che a vicenda si rappresentano, è nella descrizione d’un attimo che tra una colomba e un “casatiello”, nella settimana che se n’è andata, avremmo rivisto mille volte. Antonio Candreva che disegna un cross che sa d’ultima “preghiera”, l’Arechi che soffia su un pallone che non è “uno dei tanti” buttati in mezzo così, per provare a “vedere che succede”, la traiettoria che diventa magia e uno stadio che esplode perché per la prima volta dopo quasi un quarto di secolo, dopo tanti schiaffi senz’opporre neppure chissà quale resistenza, la Salernitana è riuscita a fermare l’Inter, che pochi giorni dopo a Lisbona si sarebbe messa in tasca mezzo biglietto (e forse di più) per la semifinale di Champions, e cioè per un posto tra le migliori quattro d’Europa.
È un momento da custodire nei cassetti più preziosi della memoria per il vecchio cuore granata. Non (solo) per il prestigio in sé d’un pareggio imposto a una “grande” del calcio, italiano e planetario, né per il significato meramente sportivo che il prolungarsi della striscia d’imbattibilità della gestione Paulo Sousa rappresenta. Sarebbe riduttivo semplificar tutto così, e ridurlo a ciò ch’è visibile agli occhi di chiunque. E allora (ri)pensi che la verità, forse, te la raccontano i muri, sui quali non si scrive – e certo che no, è “atto incivile” – e però che probabilmente a volte hanno voglia di parlare da soli. Perché danno voce alla gente in carne e ossa. Così leggi, a guardarne una, ch’è forse quella che “più c’azzecca”, una scritta in bomboletta granata al mercato di Pastena, la “segreta” e manco tanto Accademia delle scenografie della Curva Sud Siberiano, e t’accorgi che in un una frase, “Nessuno vede c’ho che sento”, c’è riassunta l’essenza di quel ch’è accaduto Venerdì Santo, quasi alle sette della sera, nello stadio con il nome da principe. Altro non è che il passaggio d’un coro che da più d’un lustro ogni tifoso dell’ippocampo conosce a memoria, quel Despacido rivisitato che a fine partita gli ultras vorrebbero che cantassero anche i calciatori (passaggio che la squadra di oggi non ha ancora afferrato, ma accadrà pure questo così come c’è stata la svolta in risposta alla crisi), un canto d’amore che racconta la pazzia d’una vita vissuta con la testa nel pallone e rivendica, appunto, che nessun’altro, tranne chi quel sentimento lo vive allo stesso modo, possa comprendere la magia che si prova.
Romantico, ma mica banale. Raccontatelo agli altri cos’ha sentito un innamorato della Salernitana quando il cross di Candreva è andato a infilarsi lì, in quell’angolo di rete dell’Inter dove non batteva il sole. Spiegategli, ché no che “non si vede”, cos’è passato per la testa d’un popolo intero nelle settimane dei lanci d’agenzia che svolazzavano, dei fantasmi del passato che (ri)comparivano sotto il titolo d’una “Perquisizione della Guardia di Finanza”. Le plusvalenze, la Lazio, il calciomercato fatto in casa Lotito. Il recentissimo caso della Juventus che forse fa scuola e probabilmente “precedente”, il cuore che batte e le mani che tremano scorrendo le pagine d’uno smartphone. “Cosa ci faranno, adesso?”, quella domanda ricorrente sussurrata sottovoce, ché non sia mai qualcuno la sentisse, ed è meglio di no perché magari “è cosa di niente” e passa tutto in cavalleria. Gli incubi, le inquietudini, i timori. I nomi di Lotito, Fabiani e i calciatori che viaggiavano sull’asse Roma-Salerno in entrambe le direzioni a riaccendere la spia dell’allarme in un tempo in cui effettivamente i problemi peggiori (da risolvere, per carità, pure quelli!) parevano esser diventati non trovare un posto dove fare un centro sportivo vero, che il club granata non ha mai avuto, o spendere troppo per un biglietto (legittimo chiedere anche qui che si faccia il possibile) in una città che in centro “ti offre” due aperitivi e una Coca Cola accompagnati da patatine “mosce” servite in un piattino dalle dimensioni d’un posacenere al modico prezzo di 25 euro.
E insomma, grazie Candreva! Pure una settimana dopo. Perché in quel pallone c’era tutto ciò che Salerno sente e che nessuno (o giusto qualcuno) vede. Sentimento condiviso d’una “élite” morale d’innamorati che per quella maglia cambia le proprie percezioni della vita.
Adesso, tornando alle cose “meno serie”, si va all’Olimpico, a casa del Toro. Come con l’Inter, la Salernitana avrebbe altri schiaffi del recente passato da “togliersi dalla faccia”, un altro passettino da compiere verso la salvezza. E proverà a farlo, al solito, portandosi dietro un sacco di gente. La bellezza nel sentirsi popolo…