di DARIO CIOFFI

Mi sono iscritto all’Università di Salerno nel 2003. E quel grande prato verde del campus di Fisciano era il campo neutro quotidiano d’un derby che cominciava il lunedì, quando le nostre squadre avevano appena giocato, e finiva all’arrivo del bus numero 27 il venerdì, vigilia del giorno in cui avrebbero giocato di nuovo. Un ciclico e perenne “sfottersi” per una settimana intera nel nome d’un campanilismo ch’era un triangolare. Sì, ché di campane in quella serie B, prima e unica della storia con 24 partecipanti (ma le altre 21 erano sostanzialmente messe lì per “far numero”), ce n’erano tre, tutte abbastanza in bassa fortuna: il Napoli che un’estate dopo avrebbe conosciuto gli inferi del fallimento prima di scoprire la rinascita con De Laurentiis, la Salernitana della penultima stagione dell’era Aliberti (altro destino sventurato che stava per compiersi) e l’Avellino di Casillo che a sua volta sarebbe precipitato in C a fine torneo. “Bella chiavica!”, avremmo detto in coro, senza esserci messi d’accordo e mischiando i rispettivi accenti in cui il dialetto si declina.

Dettagli. Ci bastava “l’antagonismo”, goliardico e coinvolgente, tanto da portarsi dietro persino chi di pallone sapeva nulla né gli interessava saperne, e però capiva che al tavolo della mensa non si parlava d’altro e quindi se voleva (re)starci in qualche modo gli toccava adeguarsi, per vivere con l’entusiasmo che solo il calcio sa regalare – negli “anni migliori” della gioventù universitaria, poi! – l’avvincente e mai banale disputa del nostro personalissimo “campionato regionale”. Era una gara al ribasso, va da sé. “Googlate” serie B 2003/2004 e al primo link vi comparirà una classifica finale in cui la Campania se non fu Cenerentola ci mancò poco, e il peggio, per tutte e tre le piazze, doveva ancora venire…

E però restavano particolari irrilevanti, davanti alle illusorie ma intoccabili suggestioni di ciascuno. Agli azzurri che le pareggiavano quasi tutte bastarono otto gol per “sentire” Dionigi come fosse l’Osimhen di oggi. Ai granata del debuttante Pioli (sìssignore, il campione d’Italia uscente e ora semifinalista di Champions con il Milan) parve d’aver trovato una coppia alla Artistico-Di Vaio in Tulli&Bombardini. E ai biancoverdi per percepire comunque un appiglio, qualcosa da salvare in quella retrocessione, restò la doppietta di Kutuzov che rispedì l’ippocampo a casa dal Partenio senza punti dopo una rimonta da brividi sui titoli di coda. Erano loro gli umanissimi “eroi”, molto per caso, dei 18enni d’allora, generazione calcisticamente (e mica soltanto) un po’ sfigata: i napoletani che Maradona l’avevano visto solo in VHS a casa con i genitori o nelle clip di Telelibera che giravano cento volte al giorno; noi salernitani che sì, avevamo da poco conosciuto una toccata e fuga in serie A nel ’98 ma con tutto il dolore ne seguì, e certo non eravamo abituati ai “salotti buoni”; gli avellinesi cresciuti coi racconti del decennio di massima serie senz’averla di fatto mai vissuta. L’eccezione alla regola era qualche over 30 che si portava bene i suoi anni… “fuori corso”.

I derby nel campus Fisciano erano la genuina e pura essenza d’un campanilismo che dà senso al calcio. Il seguito scontato e però autentico di questa storia è che quei “colleghi” – parola che uso a fatica pure oggi con i “veri colleghi” – diventarono anzitutto “compagni d’Università” e poi in molti casi amici, legati per sempre e che per sempre avrebbero continuato a “sfottersi” in uno spaccato d’una condivisione che vuole il pallone giocare la sua parte importante. Ognuno con la sua squadra. Che non si scambia come si faceva con le fotocopie che magicamente ti trasformavano un libro-mattone di mille pagine in un riassuntino buono per tutte le stagioni (anzi, le sessioni). Che non si “molla” per una caduta in (sportiva) disgrazia. Che non si rinnega su nessun altro altare.

Ho ripensato a quegli anni, in questi giorni, nel leggere con meraviglia chi si meravigliava: perché a Salerno s’è detto “non si festeggi lo scudetto del Napoli”, e perché a Napoli nel festeggiare lo scudetto s’è trovato spazio pure per lo sfottò in nome d’un derby che – scrissero una volta i tifosi partenopei – “per noi è un succo di frutta”. La legittima rivendicazione d’un dualismo che ha senso pure se, storia racconta, eccezion fatta per quel tempo tra il tramonto dei Novanta e i primi Duemila, il calcio giocato ha proposto di rado, e che però resta inciso nella pietra tra i “Dieci piani di morbidezza” dell’Arechi e il “Chi siete? Che volete? A 300 metri c’è l’Edenlandia” dell’allora San Paolo.

Non c’è peccato alcuno, né lesa maestà. È pallone. È orgoglio e identità di chi lo segue e gli dà un peso. Ché il campanilismo non è delitto. È un diritto. Come lo sarebbe vivere una partita così bella, speciale, con uno stadio pieno d’entrambi i colori e in cui ciascuno fa la sua parte, senza le restizioni né i balletti su date e orari che non rendendo giustizia a due squadre, e altrettanti popoli – adesso sì! – degnamente rappresentati, che la serie A di quest’anno l’hanno onorata come mai era successo: il Napoli (stra)vincendo un campionato dominato e da standing ovation, la Salernitana sgomitando per una salvezza che già alla fine d’aprile appare possibile, persino probabile, e che per alcune grandi del nostro calcio fin qui è stata una “dannazione”.

Tutto il resto è un insieme di “forzature” di cui si può fare a meno. Ciascuno viva il suo sogno. I pochi che da queste parti ci restano, piaccia o meno, sono custoditi dentro un pallone. Lasciateli rotolare…

(foto US Salernitana 1919)

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